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Il meraviglioso mondo dell'Ikebana - The wonderful world of Ikebana - Le monde merveilleux de l'Ikebana

Monthly Archives: Marzo 2023

70 estetica basara e ikebana

Come spiegato nell’art. 33, l’ikebana è nato con il tokonoma nell’ambito del kazari, l’arte di disporre gli oggetti, specialità dei doboshu della setta Ji col nome terminante in -ami alle dipendenze degli shogun Ashikaga; la sua codificazione, elaborata nei molteplici manoscritti giunti fino a noi, fu iniziata dapprima dai doboshu con i tatebana  per poi essere proseguita ed ampliata nei rikka dagli Ikenobo, dopo la caduta degli Ashikaga e conseguente sparizione dei doboshu.

 

 

Mentre la definizione delle varie regole è opera di autori almeno in parte conosciuti tramite i manoscritti da loro compilati, l’idea iniziale generica dell’ikebana è opera di diversi personaggi, principalmente i monaci al servizio sia degli shogun che degli shugo (amministratori nominati dagli shogun per gestire una o più province) ma anche di alcuni shugo.

 

Una caratteristica di questo periodo storico è il gekokujō ( = trionfo koku degli inferiori ge sui superiori ) ossia uomini di strati sociali bassi che conquistavano con la forza posizioni occupate in precedenza solo dalla nobiltà imperiale, arricchendosi in modo molto rapido.

 

Nel periodo dei primi tre shogun Ashikaga la moda del tempo era dettata dagli shugo/daimyo basara, ricchi condottieri samurai che non si conformavano agli usi e costumi di quel periodo ma ricercavano, sia nel vestire che nella vita, uno stile raffinato definito dai loro contemporanei basara ossia ostentato, stravagante, appariscente, con predilezione sia per il gusto che la ricerca e l’uso delle cose cinesi nelle arti e nella vita; erano amanti del lusso sfrenato e del mettersi in mostra con vestiti vistosi e sgargianti- spesso di influenza cinese- , accumulavano oggetti preziosi da esporre e assumevano atteggiamenti arroganti, sfrontati e sprezzanti verso tutti inclusa la Corte imperiale e gli imperatori. 

 

 

Benché questi shugo avessero dei comportamenti “sopra le righe” non accettati formalmente dallo shogunato, che in vari editti come il codice Kenmu emanato dal primo shogun Ashikaga Takauji proibiva in modo specifico gli atteggiamenti basara, essi non venivano sanzionati poiché erano comandanti militari a capo di molti uomini ed alleati indispensabili nelle battaglie che lo shogunato stava conducendo.

 

Anche gli stessi shogun di quel lasso di tempo erano influenzati dall’estetica basara, ad esempio il terzo shogun Yosimitsu Ashikaga (1358–1408) invitava gli ospiti a bere il tè facendoli accomodare su sedie cinesi preferibilmente rosse ricoperte da pelli di tigre o leopardo che venivano importate a caro prezzo dalla Cina, In tali occasioni esponeva i karamono ossia preziosi oggetti cinesi come vasi, tazzine, coppe da sake, contenitori e kakemono cinesi; il ritratto a lato lo mostra vestito con preziosi broccati.

Kara è la lettura KUN del kanji che letto ON significa Tang=dinastia cinese; mono=oggetto; karamono=oggetto dei Tang= oggetto cinese

Il suo amore per gli oggetti cinesi (karamono) associato ai lauti guadagni derivanti dal commercio con la Cina, lo portarono ad accettare il titolo di “re del Giappone” offertogli dalla dinastia cinese Ming che probabilmente ignorava l’esistenza di un imperatore giapponese.

 

 

Particolare di un paravento di Kano Naizen (1570 – 1616) in cui si vede un punto di vendita di spade riservato ai samurai con accanto la vendita di pelli di tigre e leopardo.

 

 L’uso delle pelli di tigre e leopardo è anche riportato nel Sennokuden, datato 1542 e più antico testo della scuola Ikenobo pervenutoci, scritto dal 28-esimo iemoto secondo la tradizione, oggi ritenuta non veritiera,  Senno in cui spiega come arredare lo spazio in cui si colloca il rikka; fra gli altri suggerimenti scrive:

” stendere un tappeto cinese o una pelle di leopardo o tigre nella veranda”…………..

 

Per quasi tutto il 1300 la moda basara fu seguita anche da una parte della popolazione nelle grandi città sia nelle canzoni che nelle acconciature dei capelli e nei vestiti, moda visibile nelle immagini dei paraventi e disegni di quel periodo arrivati fino a noi, e fu pure introdotta nella pittura usando colori primari/fondamentali al posto degli abituali colori tenui.

Per avere un’idea della magnificenza degli abiti usati dagli shugo/daimyo basara basta osservare le appariscenti vesti usate ancora oggi nel teatro , forma di teatro nata in quel periodo  (Zeami, ritenuto il suo codificatore, viveva alla Corte shogunale protetto da Yoshimitsu)

 

 

 

oppure questi abiti dello stilista giapponese Yohji Yamamoto che nel 1997 ha rilanciato la moda basara: il contrasto fra i suoi abiti in rapporto all’attuale moda giapponese riproduce bene il contrasto fra le vesti basara e quelle “normali” del tempo

 

 

 

 

 

 

Sia la storia che i vari racconti cavallereschi leggendari ricordano come esempio di atteggiamento basara vari shugo/daimyo come:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a lato un disegno tratto dall`emakimono Taiheiki, periodo Edo, che mostra Yōrito a cavallo mentre scocca le frecce  e al suo lato un amico che corre in atteggiamento disperato per tentare di fermarlo. 

 

Toki Yōrito, shugo della provincia di Mino,  è descritto  come esempio di atteggiamento basara, fra l’altro per il comportamento sprezzante verso gli imperatori: a Kyoto, al passaggio del carro dell’imperatore in ritiro Kōgon, Yōrito ubriaco, invece di cedergli il passaggio scoccò delle frecce contro il suo carro; per questo suo atto, fu poi arrestato e decapitato

 

 

 

Oppure il violento

Ko no Moronao ( ?- 1351), qui a fianco interpretato dall’attore kabuki Mitsugoro III° , divenuto personaggio di opere teatrali sia del kabuki che del bunraku (marionette)

 

 

 

Il più citato, grazie alle maggiori informazioni storiche arrivate fino a noi, è Sasaki Dōyō Takauji (1296-1373), monaco, poeta e shugo della provincia di Omi,  segnalato come archetipo basara:

più importante fra i poeti-guerrieri per le sue poesie renga ottantuno delle quali contenute nella Tsukubashū, 1356, prima antologia imperiale di renga, di gusti molto raffinati, esperto in quelle arti che diventeranno “tipiche giapponesi” ( tatebana, poesie waka e renga, cerimonia del tè, nascente teatro Nō  ) non riconosceva nessuna autorità al di fuori della forza bruta, dava feste per centinaia di invitati ( uomini illustri, prelati, poeti, danzatori e cortigiane) come la festa hana no moto  (sotto i fiori) che durava ventun giorni con gare di poesie renga, canti e danze (dengaku e saragaku) eseguiti da attori professionisti, con i ponti che portavano all’evento coperti con fogli d’oro e tappeti preziosi disposti sotto  ciliegi in fiore; enormi vasi in ottone contenevano fiori profumati e innumerevoli incensieri profumavano il luogo: l’intento era di riprodurre il Paradiso buddhista della Terra Pura. Sedie cinesi e cibi esotici erano a disposizione in abbondanza e  a tutti gli ospiti di qualsiasi stato sociale venivano dati lussuosi regali come essenze profumate e muschi, tessuti preziosi “ammucchiati come montagne”, pepite d’oro, sciabole in foderi ricoperti con foglie d’oro o di pelle di squalo.

Non riportato nei testi di ikebana ma solo in quelli storici, Sasaki Dōyō era esperto anche di Tatebana: a quei tempi non esistevano ancora regole e ha lasciato un manoscritto, datato 1368  dal titolo Tatebana Kuden Daiji, sull’etichetta di come disporre i vegetali 

 

 

I Tatebana sono nati “disordinatamente” nella casta dei samurai quando l’estetica basara godeva di grande favore  per poi essere codificati al tempo dell’ottavo shogun quando questa, passata di moda, venne sostituita da un’estetica improntata maggiormente sullo zen.

 

 

 Il concetto basara è stato ripreso e riadattato ai giorni nostri e lo troviamo ad esempio nel Sengoku Basara,  un anime  tratto dal videogioco Devil King

 

 

 

bibliografia

 

Edited by Jeffry P. Mass                                     The Origin of Japan’s Medieval World

J.Whitney Hall and Toyoda Takeshi                   JAPAN IN THE MUROMACHI AGE

  1. Elison and B. L. Smith                                    Warlords, Artists and Commoners, Japan in the Sixteenth Century

Sadako Ohki                                                         TEA CULTURE OF JAPAN

Makoto Ueda                                                         Literary and Art Theories in Japan

Sato Kazuhito, Anne Bouchy                              “Des gens étranges a l’allure insolite”

 

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69 nascita degli stili ikebana

Gli stili ( kata lettura Kun, Kei lettura On ) utilizzati dalla Scuola Ohara, tutti visibili da un solo lato poiché nati e rimasti nel tokonoma fino a fine 1800, sono per il Moribana:

 

 stile Alto

  

  stile Obliquo                                         

 

 

 

 

 

 

 

 

 

stile Riflesso nell’acqua

foto copyright Scuola Ohara

 

mentre quelli usati negli Heika sono:

 

 stile Alto 

  

           

 stile Obliquo          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

stile Cascata

 

 

Tutti questi stili hanno un’origine comune ossia lo stile apparso nel 15° sec., primo nella storia dell’ikebana da cui derivano tutti gli stili tradizionali di tutte le scuole compresa la Ohara simile allo stile Alto della scuola Ohara.

 

Quando nacquero le prime forme di ikebana, esclusivamente messe nel nascente tokonoma vedi art.13° e 67°, lo schema   compositivo iniziale combinava vegetali yang-legno per tutti gli elementi principali  con elementi yin -fiori o foglie- solo quali ausiliari; queste composizioni, con il ramo principale posizionato verticale e al centro –ramo sempreverde o ramo con fiori- e contornato alla base da vegetali ausiliari yin-fiori o erbe erano chiamate Tatebana vedi art. 54°, lettura KUN dei suoi kanji, nome che evidenziava la posizione verticale, diritta, dell’elemento principale ramo.

 

 

Tatebana, disegni tratti da Kao Irai no Kadensho, 1486, con l’elemento principale -ramo- al centro e verticale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Col tempo, si passò a composizioni in cui al ramo sempreverde o fiorito centrale si aggiunsero altri rami, della stessa specie o di specie differenti ma sempre solo rami, creando una gerarchia di 7 rami principali a livelli differenti come è visibile nello schema di tatebana con sette elementi attribuito a Ikenobo Kazoin e datato 1487 a lato;

 

 

il Tatebana si strutturò con regole compositive precise e venne indicato col nome  RIKKA, non cambiando i kanji con cui è scritto ma cambiando dalla lettura  Kun Tatebena lettura giaponese, popolare alla  lettura On Rikka lettura cinese,colta continuando a sottolineare che l’elemento principale della composizione era diritto, verticale.

 

 

 

 

 

Per un certo periodo iniziale, i rikka erano costruiti unicamente con l’elemento principale verticale, diritto e centrale.

 

 

rikka SHIN

 

Col passare del tempo si continuò, nelle situazioni pubbliche formali, a comporre dei rikka con l’elemento principale verticale, diritto e lo si chiamò forma formale o SHIN vedi art. 21° mentre nelle situazioni semi-formali si cominciò a comporre i rikka semiformali o GYŌ con l’elemento centrale in posizione sempre verticale ma curvato.

 

Rikka GYŌ

 

 

La composizione informale o SŌ dei rikka, sempre basata unicamente sulla forma verticale, era usata nelle situazioni informali e veniva composta in bacini bassi contenente sabbia e la composizione è chiamata SUNA (NO) MONO     suna = sabbia

Mentre nei rikka shin e gyŌ tutti i vegetali escono dal vaso tutti uniti, nei suna no mono il gruppo shu-fuku rimane unito e compatto all’uscita del vaso ma il gruppo kyaku può essere separato

 

 Rikka SŌ

 

 

Parlando in generale ( con specifiche eccezioni ), per tutti i “rami principali” dei Rikka compreso quello che attualmente la Scuola Ohara chiama kyaku, che è frequentemente un fiore erbaceo o una foglia fino all’inizio del periodo Edo si usavano principalmente rami sempreverde o rami fioriti mettendo i fiori erbacei/foglie solo all’interno della composizione e mai usati come uno dei 7  “rami principali”.

 

 

Nel periodo Edo sia la nascente borghesia che i daimyo sottoposti al soggiorno obbligatorio a Edo cominciarono a costruirono presso le loro residenze i primi giardini coltivando cespugli e fiori erbacei perciò si cominciò a creare dei Rikka, sempre esclusivamente nello stile verticale, anche con una sola qualità di fiori messi come “rami principali”, ma usando esclusivamente  iris, crisantemi, loto, narcisi, fiori tutti legati alla tradizione.

 

 

Suna no Mono con    

  

   narcisi 

iris  

loto

 

 

 

 

Rikka con

 

loto  

  crisantemi  

iris  

narcisi

 

 

 Rikka attualizzati, con soli fiori:

 

loto  

crisantemi  

   iris  

narcisi

 

Nel periodo Edo i Rikka erano esposti principalmente nelle dimore della nobiltà shogunale e imperiale mentre l’emergente ricca classe dei chŌnin (mercanti-artigiani cittadini) si limitava alle forme di ikebana più semplici, principalmente gli ShŌka/Seika: lo stile predominante è sempre stato quello “primitivo” verticale fino alla fine del periodo Edo sia nei Rikka come negli ShŌka e Seika

 

 

La maggior parte dei libri sull’ikebana pubblicati dal periodo Edo fino a fine 1800 erano scritti principalmente per i chŌnin e mostra dei Seika o ShŌka sempre con la predominanza dello stile verticale sia nei vasi alti, bassi o appesi, composizioni tutte create per essere messe solo nel tokonoma; i Seika o ShŌka nello stile Obliquo e Cascata presenti in questi libri sono relativamente pochi.

 

 

 

Da questo stile iniziale con l’elemento principale verticale simile allo stile Alto della Scuola Ohara,  derivano tutti gli altri stili apparsi nel periodo Edo cominciando da quello che la Scuola Ohara chiama obliquo

 

 

seguito poi dal cascata, seguiti poi da tutti gli altri stili tradizionali arrivati fino ai giorni nostri.

 

Le regole simboliche, create per il Rikka e semplificate per gli shŌka/Seika e ancora oggi applicate negli stili degli ikebana legati alla tradizione, sono state create per i Rikka “primordiali” con l’elemento principale al centro e diritto; queste regole simboliche sono state adattate agli stili apparsi in seguito, ed è solo ricordando che sono state create basandosi sui Rikka “primordiali” che si riesce a capire la simbologia originale in essi contenuta.

Questi simboli sono ancora ben leggibili nello Stile Alto Scuola Ohara e leggibili con più difficoltà negli altri stili derivanti dallo stile primitivo  Stile Obliquo, Cascata e Riflesso nell’acqua poiché la posizione iniziale di shu  Scuola Ohara e altri elementi principali é stata modificata, rendendo la lettura dei simboli nella composizione ikebana più difficile.   vedi ad esempio art. 16° e 17°sulla nomenclatura hongatte/gyakugatte   basata sullo stile Alto e in seguito adattata agli altri stili come il -Riflesso nell’acqua-       vedi anche art. 52°

 

 

Nelle situazioni formali ancora oggi si preferisce lo stile iniziale col vegetale principale diritto, attualizzato come in questo esempio con due composizioni (riferimento alla disposizione dei tre oggetti sacri Mitsugusoku vedi art. 13°) in cui predominano rami sempreverde verticali e diritti, con pochi fiori erbacei al centro della composizione, che accompagnano due candelabri e un incensiere.

 

tempio buddhista Ninna, scuola Shingon, Kyoto

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68 profondità nelle composizioni ikebana tradizionali

In generale, fino agli anni 1930 gli ikebana erano messi principalmente nel tokonoma, luogo “sacro” della casa tradizionale. Contrariamente agli stili creati prima di questo periodo, molti stili apparsi dopo, sotto l’influsso occidentale, sono stati creati per essere messi al centro del tavolo come decorazione ed essere visibili da più lati.

Anche la scuola Ohara ha seguito questa tendenza creando negli anni 1960 nuove forme da mettere al centrotavola che poi ha tolto dal curriculum nel 2020, anno in cui le composizioni viste da più lati sono state abbandonate ad eccezione di una forma circolare (Mawaru-katachi), ancora parte del curriculum

 

 

Hana-isho radiale, esempio di composizione visibile da più lati abbandonata dal 2020

 

Guardando sia le vecchie stampe che i  disegni degli ikebana creati prima degli anni `30 e le fotografie degli ikebana in stile tradizionali dopo tale data, le composizioni disegnate o fotografate da un unico punto possibile, ossia dal davanti, vedi art. 67° appaiono “piatte” senza profondità ed è impossibili, se non si hanno punti di riferimento esterni alla composizione, capire la direzione dei singoli vegetali e intuire la  profondità della composizione nel suo insieme.

 

 

 

RIKKA

 

 

 

 

In questi due disegni e una fotografia è evidente che non è possibile capire la profondità delle composizioni individuando la direzione dei singoli rami: sembra che tutti i vegetali siano posizionati piatti su di un unico stesso piano.

 

 

 

 

In realtà i vari elementi delle composizioni sono diretti sia in avanti che in dietro, oltre che lateralmente, in modo variato e lo schema a destra  mostra chiaramente la proiezione dei rami principali usati nel Rikka su di un piano orizzontale: si nota una direzione predominante data dai tre rami – curvatura di 1 , 5 e 6, dai quali derivano shu, fuku e kyaku della Scuola Ohara, che sono disposti in modo obliquo rispetto a chi guarda e sono allineati sul segmento che congiunge le posizioni simboliche del Cielo e della Terra nel Tai-jitu   vedi art. 15° ossia la linea che unisce il punto di massimo-yang (Cielo) al punto massimo-yin (Terra) mentre il resto dei 9 rami principali si dirige in varie direzioni, incluse quelle verso il retro della composizione, dando assieme al ramo principale shu della Scuola Ohara e ramo 5  fuku Scuola Ohara profondità alla composizione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I due disegni a lato di Suzuki Harunobu (1725-1770) e quello sotto di  Isoda Koryūsai (1735–1790) mostrano senza dubbi  come i rami dei Rikka siano messi in tutte le differenti direzioni dei 360° possibili, dando profondità alla composizione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Disegno tratto da Seiro-Bijin-Aisugata-Kagami, medio periodo Edo

 

 

Con l’apparire nel periodo Edo degli ikebana nel nuovo stile Shōka della Scuola Ikenobo (sempre visibili da un unico lato poiché messi solo nel tokonoma)  si è conservata la profondità della composizione.

 

 

– il disegno a lato di uno Shōka di Aspidistra scuola Ikenobo con alla base i tre piccoli disegni schematici che lo mostrano visto dall’alto, evidenzia:

° il lato yang al sole e quello yin all’ombra dei singoli vegetali -col sole dietro la composizione, a sinistra- vedi art. 15° e con Shin che “guarda” verso di esso;

° tutti gli altri elementi “guardano” verso Shin come è ben visibile nel disegno che mostra il lato al sole bianco/yang e il lato striato o nero  all’ombra/yin di ogni singolo vegetale sia nel disegno della composizione come nello schema a sinistra in cui si vede la sezione di tutti i vegetali mostrante il lato bianco/yang al sole (hi omote) e il lato nero o tratteggiato/yin all’ombra (hi ura) di ogni singolo vegetale della composizione.

 

 

 

 

 

lo schema in basso a sinistra mostra le direzioni dei singoli vegetali mentre quello a destra mostra la suddivisione dell’intera composizione in lato yang e yin

 

   La profondità della composizione è stata mantenuta anche nei Seika delle altre Scuole, anche se, a differenza dello Shōka della Scuola ikenobo che ha mantenuto la direzione simbolica con i tre elementi principali allineati sulla linea che unisce il Cielo alla Terra basata sul simbolo taoista Tai-ji,  i Seika delle altre Scuole hanno modificato la posizione dell’elemento che la Scuola Ohara chiama fuku.    

vedi art.15° e 24°

 

 

 Gli stili (kata) della Scuola Ohara legati alla tradizione, sia nel Moribana che nell’ Heika , sempre visibili da un solo lato, derivano dai Seika ed hanno mantenuto la profondità delle composizioni come in questo esempio di Moribana stile Obliquo, profondità difficile da immaginare avendo a disposizione solo le fotografie o i disegni tradizionali che mostrano le composizioni solo dal davanti come la foto A, in cui la profondità della composizione non è valutabile, ma ben visibile nelle fotografie prese da lato o dall’alto

 

A, dal davanti

B, da lato

C, dall’alto

 

 

 

 

 

 

 

foto copyright Scuola Ohara

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67 simbolismo della composizione ikebana nel suo insieme

Ikebana e tokonoma sono apparsi e si sono sviluppati di pari passo nel 15° secolo vedi art.13° : questo fatto ha influenzato alcune caratteristiche dell’ikebana come la sua denominazione di-destra (hongatte) o di-sinistra (gyakugatte) vedi art. 16° e 17° e anche la sua simbologia che ha potuto svilupparsi unicamente grazie al fatto che gli stili “tradizionali”  sono sempre stati creati per essere posti solo nel tokonoma.

 

 

 

 

 

 

 

Rappresentazione grafica di un Rikka in cui è intuibile nella parte alta il disegno di tre picchi brulli del monte Sumeru visti in lontananza, “disegnati” dal ramo principale

 

 

Nell’articolo 22° si è spiegato come  il simbolo buddhista del mitico monte (Su)Meru sia riprodotto nella struttura del Rikka mentre negli art. 15° e 24° si è descritto come il simbolo taoista tai-ji sia riprodotto coi vegetali nello Shōka e Seika, suddivisi in parte yang (legno) e parte yin (fiori), simbologia che è stata mantenuta negli Stili Alto, Obliquo  e -Che si riflette nell’acqua- della Scuola Ohara  nei quali il gruppo shu-fuku dev’essere yang rispetto al gruppo kyaku.

 

Sia nei Rikka che negli Shōka e Seika è stato possibile inserire queste simbologie unicamente per il fatto che, nella casa tradizionale giapponese fino a fine ottocento, l’ikebana era posto solo nel tokonoma, spazio sacro dunque inviolabile e impenetrabile, con poca profondità, che conteneva solo un kakemono, un ikebana e un possibile terzo oggetto.

 

 

Nella tradizione l’ospite si inginocchiava davanti al tokonoma, a una certa distanza per rispetto alla sua sacralità -di solito un tatami- ed ammirava silenziosamente prima il kakemono, l’oggetto più importante del tokonoma, poi la composizione, seconda per importanza; essendo il tokonoma chiuso ai lati, l’unica visione possibile era ed è dal davanti.

 

 

 

 

In questa fotografia di casa tradizionale giapponese è ben visibile il fatto che, essendo il tokonoma poco profondo e chiuso ai lati da due pareti, l’ikebana posto nel tokonoma è costruito per essere visibile solo dal davanti.

 

 

Essendoci una sola possibilità fissa, dal davanti e a una certa distanza, di guardare la composizione, questa poteva venir “disegnata” con i vegetali, fatto che non sarebbe possibile se questa fosse visibile da vari lati, poiché il disegno originale sarebbe stato deformato cambiando i punti di vista.

 

 

Il fatto che l’ikebana nella tradizione è costruito per essere  ammirato da un unico punto di vista è ben esemplificato nella “scultura” di Marco Cianfanelli,  Johannesburg, in Sudafrica: degli elementi di varie forme e spessori inseriti nel terreno mostrano il viso di Mandela  solo se visti da un unico e preciso punto di vista

 

 

RIKKA

 

Per la costruzione del Rikka simboleggiante il monte Sumeru si è preso come riferimento il modo di dipingere i Paesaggi in Cina.

 

 

 

 

 

A lato un disegno cinese di un Paesaggio (le cui regole compositive sono state assimilate dai pittori giapponesi) in cui, nello stesso disegno, sono ben esemplificate le tre tipiche prospettive: nella parte alta quella “in lontananza”, le montagne, nel mezzo quella “a media distanza”, gli alberi, e in basso quella “ravvicinata”

 

Nell’articolo 22° si è spiegato che il Rikka rappresenta il mitico monte buddhista Sumero la cui parte alta, come era consuetudine nei disegni cinesi e giapponesi del tempo, è rappresentata con prospettiva “in lontananza”, la parte media quella “a media distanza” mentre quella bassa in prospettiva ravvicinata, esattamente come nei disegni di Paesaggi.

 

 

In questo disegno di un Rikka preso da Rikka shōdōshũ (i giusti principi del Rikka) datato 1684 è facilmente visibile che la sua parte alta rappresenta tre picchi di montagne viste da lontano:

il ramo principale è un salice e l’autore ha potuto “disegnare” con i rami colaterali del salice la parte alta della composizione mostrando la parte in lontananza con tre vette, due alla nostra destra e una a sinistra, che contornano una valle (fusto del ramo) molto simile al disegno a lato che mostra la cima delle vette alpine contornanti una valle.

 

 

 

benché ci voglia un po’ più di immaginazione, anche in questo Rikka, pure tratto dal Rikka shōdōshũ, si possono vedere disegnate dal ramo principale di pino le tre cime del monte Sumeru che contornano una valle ( il tronco curvo del ramo principale ), due a destra ( 1 e 2 ) e una a sinistra ( 3 ).

 

In questi due disegni di Rikka presi come esempio, la rappresentazione delle parti “a media distanza” e “ravvicinate” non sono “disegnate” come la parte “in lontananza” e dunque difficilmente interpretabili di primo acchito: per la loro spiegazione vedi l’articolo 22.

NB: il simbolo del monte Sumeru, che caratterizza il Rikka, non è più presente nel Seika e Shōka, composizioni che, oltre ad altri simbolismi, rappresentano con i vegetali il simbolo Tai-ji essendo suddivisi in una parte con vegetali yang (rami) ed una con vegetali yin (fiori)

 

 

 

Seika e Shōka

 

Lo stesso ragionamento fatto per il Rikka vale sia per i Seika e Shōka che per gli stili Alto, Obliquo e Che si riflette nell’acqua della Scuola Ohara, che derivano dal Seika: in queste composizioni, in cui si rappresenta il simbolo del tai-ji con la sua parte yang di rami e la sua parte yin di fiori, questo simbolo è visibile solo se le composizioni sono messe nel tokonoma o, come si usa attualmente al di fuori di esso,  contro una parete in modo da essere visibile solo da un lato.

 

a sinistra un Seika visto frontalmente;

dalla fotografia a destra è evidente che la composizione è costruita per essere vista da un solo lato: questa mostra la parte bassa della composizione che, vista lateralmente, conferma il fatto che è stata concepita per essere vista solo frontalmente.

 

 

In alcune scuole ci fu la moda di “disegnare” coi vegetali, abbastanza frequentemente il profilo del monte Fuji come in questo Rikka della secoda  metà del 1600 disegnato da Hirozumi Sumiyoshi (1631-1705)

 

 o in questi tre seika, esempi scuola Enshu

oppure altri soggetti 

 

uccello

Fujiyama, anonimo

 

fatti possibili solo perché le composizioni erano nel tokonoma o contro una parete e perciò visibili solo dal davanti.

 

Moribana ed Heika scuola Ohara

 

 

 

gli stili Alto, Obliquo, Cascata e Riflesso nell’acqua  derivano dal Seika: in queste composizioni, in cui si rappresenta il simbolo del tai-ji con la sua parte yang di rami e la sua parte yin di fiori, questo simbolo è visibile solo se le composizioni sono messe nel tokonoma o, come si usa attualmente al di fuori di esso,  contro una parete in modo da essere visibile solo da un lato.

 

Ad esempio questo Stile Alto nell’Heika della Scuola Ohara riproduce il taiji con i vegetali yang (legno) del gruppo shu-fuku e con i vegetali yin (fiori) del gruppo kyaku solo se è visto dal davanti. Lo stesso Heika visto di lato (foto a destra), non ha alcun senso né significato.

 

 

Occidentalizzazione del Giappone e dell’ikebana vedi anche art. 35°

 

 

Mentre “l’occidentalizzazione forzata” generale del Giappone è cominciata nel periodo Meiji (1868-1912) con l’esempio dell’imperatore e tutta la nobiltà sia imperiale che shogunale che, al di fuori del privato, in tutte le occasioni pubbliche usarono solo abiti, oggetti, modi, occidentali,

 

tutto ciò che era giapponese venne rifiutato in favore di tutto ciò che era ritenuto  “occidentale”; nel disegno a destra, sul tavolo, troneggia una composizione floreale occidentale

 

 quella “particolare” dell’ikebana cominciò più tardi, verso il 1930: un gruppo di ikebanisti, al grido di battaglia “l’ikebana fuori dal tokonoma” scrisse il

Manifesto dei nuovi stili dell’Ikebana

che, fra l’altro, contiene le seguenti frasi:

“bisogna sbarazzarsi dell’idea che sia la natura o il vegetale che costituisca il materiale di base dell’Ikebana, altrimenti non arriveremo mai a fare dell’Ikebana un’arte nel senso pieno del termine” in cui l’arte è considerata dal punto di vista occidentale e non da quello giapponese tradizionale, in quegli anni  ritenuto sorpassato.

inoltre:

Il vegetale non è nient’altro che un pezzo di materia isolato che, in sé stesso, non ha nessun senso né contenuto.
Noi dobbiamo vedere nei vegetali solo le linee, i colori e le masse.”

 

Negli stili degli ikebana creati prima degli anni trenta prevale la “personalità” dei vegetali mentre in quelli creati dopo tale data prevale la “personalità” dell’ikebanista.

 

Togliendo l’ikebana dal tokonoma, e rendendolo visibilie da tutte le parti, non fu più possibile applicare la simbologia spiegata sopra e legata al fatto che la composizione era visibili solo da un lato.

In queste composizioni non c’è più la simbologia legata alla tradizione ma rimangono, tuttavia a completa discrezione dell’ikebanista, le altre caratteristiche dell’ikebana ossia il vuoto, l’asimmetria, la gerarchia, l’uso dei numeri dispari, il toglie il superfluo lasciando l’essenziale, ecc.

Hana-isho, Forma allineata, visibile da più lati, Scuola Ohara

Per differenziare le composizioni non più legate al tokonoma e che han perso ogni simbolismo  da quelle tradizionali, la Scuola Ohara usa due nomi differenti: denomina con STILE  (Alto, Obliquo, Che si riflette nell’acqua, Cascata) le composizioni create per essere messe nel tokonoma e legate alla tradizione mentre chiama FORME quelle non più legate al tokonoma e alla tradizione, create dopo gli anni ’30.

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66 Il sentimento delle stagioni nei paraventi giapponesi dipinti

Sfortunatamente le illustrazioni di questo articolo sono andate perse durante la migrazione del sito. Sarei molto riconoscente all’autrice se potesse inviarmele all’indirizzo influpi(@)bluewin.ch. Grazie

el

articolo scritto da Nicoletta Fumagalli, scuola Ohara, Milano

 

1 La simbolizzazione delle stagioni

In Giappone le quattro stagioni sono chiaramente distinte: a una breve primavera seguono la lunga estate, pre-monsonica e monsonica, l’autunno con i suoi colori e l’inverno nevoso.

La coscienza del trascorrere del tempo e una delicata sensibilità per gli aspetti caratteristici di ogni stagione diedero origine fin dai tempi antichi a una tradizione che collega un insieme particolare di sentimenti poetici a ogni epoca dell’anno.

A partire dal periodo Heian (794-1185), una varietà di oggetti naturali fu associata in poesia a una specifica stagione; si riteneva infatti preferibile esprimere emozioni e pensieri in modo indiretto, elegante, educato, e questo si poteva fare attraverso uno scenario naturale.

Nella cultura aristocratica giapponese, la rappresentazione della natura è raramente solo decorativa o mimetica. È invece quasi sempre codificata simbolicamente: la descrizione di una pianta, di un fiore, un animale o un paesaggio diventa la descrizione implicita di uno stato d’animo umano: la natura è allora la chiave per esprimere emozioni e pensieri. Ecco perché le stagioni divennero tanto importanti: l’espressione dell’intimità attraverso un elemento naturale, il rimando dal mondo esterno a quello interno è un criterio essenziale per comprendere la letteratura e le arti visive giapponesi.

Gran parte della poesia giapponese divenne quindi poesia delle stagioni. Ogni argomento stagionale generò a sua volta un gruppo di associazioni, che entrò a far parte di un vocabolario culturale proprio non solo della poesia, ma anche di un’ampia varietà di arti, come la pittura di paraventi (byōbu-e) e rotoli (emaki), la composizione floreale, il teatro nō, la cucina e l’abbigliamento.

Di fondamentale importanza in questo processo fu il waka, la poesia classica giapponese di trentuno sillabe, composta dalla nobiltà e dai personaggi della corte: esso assegnò agli elementi naturali tutta una gamma di caratteristiche stagionali, che dovevano essere lette in riferimento alla vita degli esseri umani. Un certo numero di queste associazioni era originale, ma molte, come quella fra la rugiada d’autunno e le lacrime, derivavano dalla poesia cinese della stessa epoca. La stagione, insieme con l’amore, divenne il tema caratteristico della poesia e della pittura, in particolare di quei dipinti chiamati yamato-e, nello stile tradizionale giapponese, e poi nello stile Rimpa successivo.

In questa poesia classica, l’accento era posto non su come la natura è realmente, ma su come questa dovrebbe essere; nel waka, dovrebbe essere elegante e aggraziata, come vediamo anche nel paravento seguente.

La composizione su fondo oro mostra al centro un pino su cui s’arrampica un glicine; il torrente bianco di spuma che si vede scorrere fra le nuvole dorate rinfresca la scena. Da destra a sinistra (il verso in cui vanno lette le pitture giapponesi), piante e uccelli di fine primavera e poi d’inizio autunno: si inizia con la kerria e si termina con una camelia sasanqua che collega questo paravento a quello delle altre due stagioni. Kanō Eino (1631-1697), figlio di Kanō Sansetsu, ripete i motivi caratteristici della famosa scuola Kanō, di cui è un tardo rappresentante.

 

La tradizione giapponese di considerare la natura in modo armonioso è vista dagli studiosi nostri contemporanei come una costruzione della cultura originata già nell’ottavo secolo nella capitale del Paese. Il waka è infatti un genere poetico urbano, nato nelle città e destinato alla comunicazione all’interno di un’élite colta. I paraventi dipinti, le stampe, i kimono a dodici strati indossati dalle dame dell’aristocrazia, i giardini, e poi a partire dal medioevo il bonsai, le composizioni floreali, l’individuazione di “luoghi famosi” legati a particolari stagioni, il teatro e la cerimonia del tè: insieme con la poesia erano tutti modi raffinati di surrogare la natura reale per gli abitanti della capitale Heian (l’odierna Kyoto), che raramente avevano occasione di frequentare direttamente gli ambienti esterni alla città. Nelle loro abitazioni, essi erano comunque circondati da paesaggi dipinti, da allusioni poetiche, da un elaborato sistema di rimandi alla natura.

Nelle 21 antologie poetiche imperiali, dal Kokinshū (ca. 905 d.C.) allo Shinshokukokin Wakashū (ca 1439 d.C), tali rimandi furono canonizzati e fissati, in modo da costituire un codice comprensibile al fruitore educato. Questo linguaggio si componeva di alberi e fiori, di cui si poneva in evidenza il colore e il profumo; di uccelli e insetti, evocati per la loro voce, mentre l’unico animale a quattro zampe era il cervo; di fenomeni atmosferici come le nebbie, gli acquazzoni primaverili etc.; e di elementi collegati alla cosmologia shintoista come le montagne, i fiumi o la luna.

Ogni stagione non era poi considerata compatta, ma se ne distinguevano tre fasi, e si poneva di preferenza l’accento sulla prima e sull’ultima fase. All’interno di ogni stagione gli elementi naturali erano disposti in una progressione rigida (ad es., i fiori di pruno venivano sempre prima di quelli di ciliegio, e questi prima della kerria), in modo da poter dire a prima vista di quale fase della stagione si trattava. Anche le associazioni con i sentimenti erano fisse (ad es. cervo = solitudine), di modo che il paesaggio e le emozioni si fondevano (vedere un cervo dipinto o sentirlo nominare in poesia portava l’immediata connessione con la solitudine, come quella del cervo maschio che cerca la compagna). Fisse erano anche le combinazioni, generalmente tra un fiore e un uccello. Infine, come ho detto sopra, la poesia waka poneva l’accento sull’eleganza e sull’armonia: la natura non era mai rappresentata nel suo aspetto pericoloso. Mai un terremoto, un’inondazione, un aspetto selvaggio o temibile.

Fu il grande poeta Fujiwara no Teika (1162-1241) che canonizzò stabilmente queste associazioni, addirittura mese per mese. Il suo lavoro divenne la base per gran parte della pittura successiva nel periodo Edo.

Kenzan raffigura una poesia di Teika, con le associazioni che essa prescrive per il primo mese d’estate:“Le vesti di tela bianca/ dovrebbero esser messe all’aria, dicono,/proprio quando arriva l’estate/e i fiori di deutzia in boccio/fanno incurvare la siepe. // Nel villaggio di Shinobu/dove vive il cuculo,/il suo grido ora si sente,/mentre aspettiamo il prossimo mese/quando fiorisce la deutzia”.

Ogata Kenzan, che era prevalentemente un ceramista, produsse anche dodici piatti quadrati decorati e illustrati con le poesie di Teika.

 

1 Ecco le associazioni di Teika fra mesi, piante, animali – questi ultimi quasi tutti uccelli acquatici:

Primo mese                   salice                              usignolo giapponese

Secondo mese              fiori di ciliegio                  fagiano

Terzo mese                   glicine                              allodola

Quarto mese                 deutzia                            piccolo cuculo

Quinto mese                 mandarino                       gallinella di palude

Sesto mese                  garofano selvatico            cormorano

Settimo mese                patrinia                            gazza

Ottavo mese                  lespedeza                       la prima oca selvatica

Nono mese                   miscanthus                     quaglia

Decimo mese                crisantemo tardivo          gru

Undicesimo mese         nespola                           piviere

Dodicesimo mese         primi fiori di pruno           uccelli acquatici

 

Vediamo allora in concreto le tematiche associate ad ogni stagione. Notiamo che le stagioni giapponesi non corrispondono esattamente a quelle del nostro calendario.

Primavera (nel calendario giapponese, dal Primo al Terzo mese, 4 febbraio – 4 maggio)

Fin dal periodo Heian, quattro temi marcano il distacco dall’inverno e l’arrivo della primavera:

la neve, la nebbia primaverile, il ghiaccio che si scioglie e l’usignolo dei cespugli giapponese (uguisu), un uccellino simile a un passero con il ventre bianco e le penne di un colore uguisu (un misto di verde,

marrone e nero), che in primavera arrivava in città dalle colline e dalle valli circostanti, dove si pensava che passasse l’inverno.

“Senza la voce dell’usignolo che viene dalla valle, come sapremmo che arriva la primavera?” Kokinshū, – antologia imperiale di poesie waka, (ca. 920 d.C.) – Primavera 1, n. 14.

L’arrivo della primavera è seguito dalle prime gemme del salice verde, dal ritorno a Nord dell’oca selvatica e dal profumo dei fiori di pruno. Questi ultimi, generalmente rappresentati come fiori bianchi con

cinque petali arrotondati, erano apprezzati perché sapevano resistere al freddo, e nella poesia di primavera sono associati alla neve, come in questo esempio, una poesia di Otomo no Tabito composta durante un

banchetto nella sua residenza:

“I fiori del pruno si spargono nel mio giardino – una nevicata dai cieli!” Man’yoshu, (dopo il 759 d.C.), 5: 822 .

Le gemme del salice simboleggiano la primavera, la nuova vita e la nascita di un nuovo amore:

“È forse il colore del vento che viene con la primavera – i rami verdi del salice si tingono di verde sempre più ogni giorno che passa” Shigi no hanegaki, (Beccaccino che si liscia le penne, antologia waka) 1691 .

I ciliegi, nei giardini e in tutta la città, diventano un simbolo della bellezza della capitale, come in questa poesia del prete Sosei:

“(Composta guardando la capitale mentre i fiori di ciliegio erano al loro culmine) Quando guardo lontano, il salice e i fiori di ciliegio si fondono, rendendo la capitale un broccato di primavera” (Kokinshu,

Primavera 1, n. 56).

I fiori di ciliegio appaiono fra una dorata nebbia primaverile, in contrasto con la terra scura e spoglia, le costruzioni cupe e altri alberi ancora nudi. Kanō Sanraku lavorò per Toyotomi Hideyoshi, il famoso daimyo, negli anni attorno al 1570. Studiò sotto Kanō Eitoku, divenne suo genero e fu adottato assumendone il cognome. Più tardi divenne il leader della scuola Kanō.

Ma presto, l’aspetto più interessante della fioritura del ciliegio divenne il momento in cui i fiori appassiscono e si spargono al suolo, come nella famosa poesia di Ono no Komachi:

“Mentre guardo fuori durante le lunghe piogge, il colore dei fiori di ciliegio sbiadisce, proprio come la mia vita, che passa invano” (Kokinshu, Primavera 2, n. 113).

Il desiderio umano si rivolge a qualcosa che vogliamo raggiungere o anche a qualcosa che abbiamo perduto. In Giapponese, entrambi questi aspetti si esprimono con il verbo shinobu, che può significare

“soffocare il desiderio” oppure “guardare al passato con rimpianto”; questo è un tema ricorrente nella primavera. Allo stesso modo, le poesie sui fiori di ciliegio riguardano non tanto il culmine della fioritura,

quanto l’attesa dei fiori e poi il rimpianto al loro appassire. È questo sentimento quindi che si riflette nei paraventi dipinti.

I fiori associati alla fase più tarda della primavera sono il glicine e la kerria; il momento topico del giorno in questa stagione è l’alba.

Estate (nel calendario giapponese, dal Quarto al Sesto mese, 5 maggio – 6 agosto)

Un altro uccellino, che arrivava nel quarto mese, segnava l’estate: il piccolo cuculo (hototogisu). Il suo richiamo era associato con la nostalgia e i ricordi personali, così come il fiore del mandarino, o meglio il suo profumo.

“Quando avverto il profumo dei fiori di mandarino aspettando il Quinto Mese, mi sovviene la manica di una certa persona tanto tempo fa” (Kokinshu, Estate, n. 139).

Le piogge lunghe e opprimenti del Quinto Mese, la stagione dei monsoni, divennero un argomento importante nel periodo Heian, quando furono associate alla malinconia. L’associazione fra gli omofoni

samidare (pioggia estiva) e midare (turbato) collegarono le piogge estive alla depressione. Amore, ricordi, morale basso sono quindi la combinazione evocata dal piccolo cuculo e dai fiori di mandarino.

La calura estiva era troppo insopportabile per essere menzionata in poesia; si preferì invece dare immagini di fresco, o anche richiamare il refrigerio della sera e la sua brevità.

“Attingendo l’acqua del pozzo all’ombra dei pini, penso a un anno senza estate” Shuishū, (terza antologia imperiale, 1005 d.C.) Estate, n. 131 .

In estate fioriva il kakitsubata, una specie di iris spesso citata nelle poesie d’amore, forse perché nella sua forma e nel colore c’è qualcosa che ricorda la bellezza femminile. Il calamo aromatico, erba di buon

augurio, era associato a questa stagione come la peonia, la deutzia e il giglio. L’estate muore fra lo stridio triste delle cicale.

Momento topico della stagione, la notte: sempre troppo breve per trovarvi refrigerio.

 

A sinistra la primavera, al centro le peonie dell’estate. Esse sono totalmente fuori scala rispetto al pino, con l’effetto di trionfare sul fondo oro. Ospitano il piccolo cuculo, uccellino associato con la prima fase della stagione.

 

Autunno

Nel calendario giapponese, l’autunno si estendeva dal Settimo al Nono mese (circa dal 7 agosto al 6 novembre); la calura estiva rimaneva così dominante in tutta la prima metà di questa stagione. Come sempre, in Giappone la natura viene osservata nei minimi dettagli, e quindi la transizione graduale da una stagione all’altra è attesa e spiata in ogni suo segno. il cambiamento di stagione dall’estate all’autunno è avvertito prima di tutto nel vento:

“Anche se non è chiaro all’occhio che l’autunno è arrivato, mi trovo sorpreso dal suono del vento” (Kokinshu, Autunno 1, n. 169).

Il pieno autunno tuttavia è legato alla luce della luna nel cielo notturno, che sollecita pensieri malinconici. Il Professor Haruo Shirane1 scrive in proposito nel suo libro Il Giappone e la cultura delle quattro stagioni: “Sebbene la luna appaia in tutte e quattro le stagioni, l’associazione della luna con l’autunno nelle antologie imperiali di poesia waka fu tanto forte, che alla fine la luna arrivò a simboleggiare l’autunno stesso.” Lo vediamo in questa poesia:

“Quando vedo la luce della luna filtrare attraverso gli alberi, so che l’autunno struggente è arrivato” (Kokinshu, Autunno 1, n. 184).

La parola giapponese “autunno” (aki) è omofona della parola che significa “brillante”, e nei tempi antichi si pensava all’autunno come alla stagione in cui le foglie si tingevano di colori brillanti e in cui si raccoglievano i “cinque cereali” (riso, grano, miglio, sorgo e fagioli). L’autunno era dunque perfino superiore alla primavera, per lo smalto dei colori, paragonati a un meraviglioso tessuto.

 

“In primavera, vedo un’erba, che è verde; in autunno, ci sono fiori di innumerevoli colori” (Kokinshū, Autunno 1, n. 245).

 

Fu l’influenza cinese che, a partire dal nono secolo, determinò la conversione dell’autunno in una stagione di tristezza, anche di declino dell’amore. Si accostò dunque all’autunno (aki) un altro omofono, che significa “tristezza”. Perfino i colori sgargianti divennero simbolo di caducità e malinconia, in una estetica che superava le apparenze e chiedeva maggiore profondità spirituale.

 

“In ogni cosa l’autunno è triste – quando penso a ciò che accade quando le foglie degli alberi cambiano colore e svaniscono” (Kokinshū, Autunno 1, n. 187).

Momento topico di questa stagione divenne la sera.

Fin dal Man’yoshū troviamo associate all’autunno le “Sette erbe”, elencate come segue: lespedeza, miscanthus con spighe, pueraria, garofano, patrinia, eupatorium e ipomoea. In seguito, dal periodo Heian, il crisantemo diventò il fiore principale nella poesia dell’autunno. In Cina, questo fiore elegante era simbolo di lunga vita e di alto stato sociale; in Giappone, costituì lo stemma imperiale.

In questo dipinto che mostra fiori di crisantemo con spighe, Ogata Kōrin utilizza differenti tecniche pittoriche. Le spighe sono rese con pittura oro su uno strato di gofun (gusci di conchiglie macinati); i crisantemi sono rappresentati in diversi stadi di fioritura, più chiusi in basso e sempre più grandi a mano a mano che si sale. Nella pittura Rimpa, gli artisti fanno molta attenzione al ritmo degli elementi; qui, anche lo spazio vuoto è stato accuratamente considerato. Se dividiamo il paravento con una diagonale che congiunge l’angolo in basso a destra con quello in alto a sinistra, vediamo che la parte sinistra resta quasi completamente vuota, mentre i crisantemi e le erbe si concentrano sulla destra. Il fondo oro da solo diviene una componente decorativa importante, tutta luce, ripresa nella venatura dorata delle foglie dei crisantemi.

 

Un aspetto notevole di questo paravento è il lato posteriore: su un fondo di foglia argento è dipinto un acero nella sua veste rossa autunnale, nella metà opposta a quella occupata dai crisantemi sulla fronte. Il contrasto tra le due facce – oro e argento – è marcato. Kōrin sembra dare le due versioni dell’autunno, quella luminosa e quella più malinconica.

 

Inverno (nel calendario giapponese, dal Decimo al Dodicesimo mese, 7 novembre – 3 febbraio)

Il gelo e la neve dell’inverno portavano da un lato a rimpiangere la stagione passata e dall’altro ad attendere con impazienza l’arrivo della stagione nuova.

Una famosa poesia di Ki no Tsurayuki canta la bellezza della neve, in quanto assomiglia ai fiori di ciliegio:

“Quando cade la neve, fiori ignoti alla primavera spuntano sull’erba e gli alberi che hanno dormito tutto l’inverno” (Kokinshū, Inverno, n. 323).

I poeti medievali inclusero nell’ambito dei temi collegati all’inverno gli uccelli acquatici, specialmente l’anatra selvatica e l’anatra mandarina, come in

questo waka di Murasaki Shikibu:

“Possiamo considerare gli uccelli sulla superficie dell’acqua come separati da noi? Anch’io fluttuo insicura, e conduco un’esistenza dolorosa” (Senzaishū,

Inverno, n. 430).

Vedremo in seguito che nei paraventi dipinti la presenza degli uccelli accanto a quella dei fiori è un classico della rappresentazione delle stagioni.

La neve, il ghiaccio, il gelo e la luna quasi trasparente diedero origine a una nuova estetica di fredda purezza e costruirono un paesaggio monocromatico

molto affine alla pittura a inchiostro, di origine cinese, del periodo Muromachi.

I poeti medievali inclusero nell’ambito dei temi collegati all’inverno gli uccelli acquatici, specialmente l’anatra selvatica e l’anatra mandarina, come in

questo waka di Murasaki Shikibu:

“Possiamo considerare gli uccelli sulla superficie dell’acqua come separati da noi? Anch’io fluttuo insicura, e conduco un’esistenza dolorosa” (Senzaishū,

Inverno, n. 430).

Vedremo in seguito che nei paraventi dipinti la presenza degli uccelli accanto a quella dei fiori è un classico della rappresentazione delle stagioni.

La neve, il ghiaccio, il gelo e la luna quasi trasparente diedero origine a una nuova estetica di fredda purezza e costruirono un paesaggio monocromatico

molto affine alla pittura a inchiostro, di origine cinese, del periodo Muromachi.

Gli uccelli acquatici dell’autunno volano verso l’inverno in questo paravento, dove un grande pruno contorto fiorisce tuttavia. Anche se il dipinto non è propriamente monocromatico, l’uso del colore è ridotto ed essenziale.

 

Momento topico di questa stagione fu considerato il mattino.

 

2 Un linguaggio codificato e un indice dei sentimenti

Nel dodicesimo secolo, il poeta Fujiwara no Shunzei (1114–1204) scriveva:

“Come si afferma nella prefazione del Kokinshū, la poesia giapponese prende il cuore umano per seme e lo fa crescere in innumerevoli foglie di parole. Così, senza la poesia giapponese, anche se qualcuno cercasse i fiori di ciliegio in primavera o guardasse il fogliame splendente dell’autunno, non ci sarebbe nessuno in grado di riconoscerne il colore o il profumo.

… Mentre i mesi passano e le stagioni cambiano, e man mano che i fiori di ciliegio lasciano il campo alle foglie splendenti dell’autunno, ci ricordiamo le parole e le immagini delle poesie e ci sentiamo in grado di percepire la qualità di quelle poesie.”

Qui non c’è dunque solo il concetto secondo cui la natura ci aiuta ad articolare ed esprimere pensieri e sentimenti: siamo assai oltre. Shunzei asserisce che la conoscenza della poesia che parla della natura è necessaria agli uomini per vedere e riconoscere la natura nelle sue qualità, perfino quelle che dovrebbero parlare immediatamente ai nostri sensi, come il colore o il profumo. In questa visione, la poesia ci coltiva, dandoci un cuore più sensibile al mondo esterno.

Dunque, l’esplorazione dei sentimenti umani che è propria della poesia trova ispirazione in natura e attribuisce agli elementi naturali ogni finezza del sentire.

Ma in base a quale caratteristica una pianta o un animale arrivano a incarnare uno stato emotivo interiore umano?

Gli uccelli, gli insetti e il cervo che sono citati nelle poesie waka sono apprezzati per certe associazioni lessicali come il matsumushi, il grillo del pino, il cui nome in giapponese significa “insetto che aspetta”; oppure per le loro voci. In relazione a questi animali, si usa spesso il verbo naku, che significa “piangere”, verbo che esprime una serie di sentimenti umani come la tristezza, il rimpianto ecc.

Anche alle piante si assegna la capacità di sentire. Ad esempio, il pruno è ammirato per il suo coraggio nel fiorire in inverno, per la costanza e la resistenza ai rigori del clima.

Potremmo anche chiederci quale sia il modo in cui queste associazioni fra elementi naturali e sentimenti umani si creano e si diffondono. Parzialmente, ho risposto sopra con gli esempi tratti dalla poesia; ma c’è anche un altro modo, che coinvolge le arti visive, di cui Haruo Shirane (op. cit.) porta un esempio.

Nei “Rotoli della storia di Genji”, che datano dal sec. XII, nel capitolo Minori, “I riti”, vediamo il principe Genji con la sua amata, Murasaki, che sta morendo. La scena si svolge in un interno, ma il pittore ci mostra anche l’esterno, con erbe autunnali incurvate dal vento e dalla pioggia.

Genji piange la sua innamorata, scrivendo questa poesia sulla lespedeza:

“Così poco riposa la rugiada sulla lespedeza/ora già si disperde nel vento”.

 

La lespedeza è una delle erbe che appaiono nella scena; esse sono importanti, poiché occupano circa un terzo del dipinto, e indicano il dolore che Genji sta patendo nell’intimo. Nella pittura dei periodi successivi, basterà rappresentare erbe autunnali incurvate per evocare il dolore del distacco.

 

Figlio del signore feudale (daimyo) della regione di Himeji, Hoitsu fu educato alla poesia e alla calligrafia fin da giovane. Dopo i vent’anni s’immerse nella cultura popolare e all’età di 37 anni si fece prete. Attorno a questa data si interessò particolarmente alla pittura Rimpa e la riprese in una versione sofisticata. Qui vediamo le erbe dell’autunno scosse dal vento, che porta via con sé le foglie e frusta le spighe di suzuki finché, come quella più in basso, si abbandonano per non più rialzarsi.

Notiamo tuttavia che anche quando piante o animali sono trattati come materiale poetico, essi non sono un espediente retorico o una metafora priva di vita. L’animo e le religioni del Giappone impongono sempre un profondo rispetto verso la natura, che non è mai considerata “altra” o subordinata all’uomo, ma piuttosto una totalità di cui il genere umano è parte.

3 Cultura di corte e cultura popolare

Tanto nella cultura di corte quanto in quella popolare, la natura era da un lato venerata, dall’altro lato temuta per le sue manifestazioni catastrofiche e anche per gli eventi di scala minore, che però potevano imprevedibilmente rovinare il raccolto e portare la fame nel territorio.

Prima nella cultura di corte, poi anche in quella popolare, la rappresentazione della natura nella forma di arte poetica, arte visiva e teatro fu utilizzata per portare un senso di armonia in un mondo disordinato e tumultuoso.

Nel periodo Nara la natura aveva già assunto la funzione di talismano, sia per allontanare le calamità (la morte, le pestilenze, le catastrofi), che per invocare la buona sorte (un raccolto abbondante, una vita lunga, la buona salute). Lo si vede nel Man’yoshū: gli elementi naturali riuscivano a rivestire il ruolo di intermediari fra uomini e divinità, queste ultime potendo essere benevole o avverse. Le rappresentazioni talismaniche non seguivano la successione delle stagioni, perché volevano costituire punti saldi, fissi, al di là delle costanti e imprevedibili trasformazioni del mondo.

Vediamo ora gli elementi talismanici che qui ci interessano maggiormente, perché erano frequentemente rappresentati nella pittura dei paraventi: erbe e fiori di primavera, pino, bambù, gru e fenice.

Fin dai tempi antichi, si riteneva che le foglie verdi e i fiori colorati che spuntano in primavera fossero portatori di una forza vitale. I canti che descrivevano i fiori che sbocciano e gli alberi che si rivestono di foglie erano un modo per lodare e attingere a questa forza vitale.

L’albero più importante e il più popolare fra i simboli talismanici è il pino. Esso da sempre era usato per il legname da costruzione e per le torce, ma era anche noto per la sua lunga vita e per il suo essere sempre verde; divenne quindi un albero sacro, associato con la longevità. Il pino è omofono del verbo matsu (aspettare) e nella poesia waka è associato all’emozione di attendere la persona amata:

“Se il fiore del pruno sboccia e appassisce, io sarò il pino che aspetta, e mi domando se il mio amato verrà o non verrà” (Man’yoshū, 10:1922)

Nei paraventi dipinti del periodo Heian il pino divenne un elemento indispensabile.

Un’altra importante pianta talismanica è il bambù, simbolo di lunga vita per i numerosi nodi del suo fusto.

In questo paravento, il bambù è rappresentato a distanza ravvicinata, in modo da mettere in evidenza i suoi nodi. La prospettiva insolita sembra metterci direttamente all’interno del boschetto.

 

Nei paraventi di uccelli e fiori dei dodici mesi, la gru è rappresentata nel Decimo mese, e funge allo stesso tempo da immagine talismanica e stagionale. Essa rappresenta longevità e saggezza.

La fenice, un uccello mitico, simboleggia la pace e il buon governo; la veste più esterna dell’imperatore era decorata con disegni di bambù, paulownia e fenice. Nel periodo Momoyama (1568-1615), i signori della guerra vollero la fenice dipinta sui paraventi, e questa pratica continuò fino al periodo Edo, quando perfino le coperte del letto erano decorate con la fenice per tener lontani gli spiriti maligni durante la notte.

Perciò, quando si guarda un dipinto, bisogna fare attenzione, perché ci sono due modi in cui le piante operano: uno indicando una particolare stagione, e quindi anche il sentimento che le è associato, per esempio la stagione dei crisantemi; ma può anche darsi che i vegetali indichino longevità e immortalità, così lo stemma imperiale del crisantemo non indica l’autunno, bensì la longevità.

La fenice, uccello mitico e magico, era un soggetto popolare nelle pitture di “Uccelli e fiori”, che nacquero nel XIV secolo e fiorirono nel periodo Edo. Questi dipinti furono una specialità delle scuole Kanō e Tosa, che erano sponsorizzate rispettivamente dal governo militare e dalla corte imperiale. Essi erano spesso donati in occasioni importanti a personaggi di alto rango, e avevano la funzione rituale di portare buona fortuna o di riconoscere l’autorità o il valore della persona cui erano dedicati.

 

Il valore stagionale e quello talismanico di fiori e piante erano spesso congiunti nella poesia e nelle arti tradizionali, come l’ikebana. Le composizioni rikka, per esempio, associavano tipicamente un sempreverde, che fungeva da centro principale e verticale (shin), con un fiore di stagione come ausiliare o estensione orizzontale.

Il Lascito segreto di Ikenobo Sen’ō (1542), il primo trattato sistematico sul rikka, fornisce una lista di piante che possono essere usate come shin per ognuno dei dodici mesi:

Primavera

Primo mese Pino, pruno

Secondo mese Salice, camelia

Terzo mese Pesco, iris (kakitsubata)

Estate

Quarto mese Deutzia

Quinto mese Peonia

Sesto mese Bambù, calamo aromatico, giglio, loto

Autunno

Settimo mese Campanula (kikyo), lychnis

Ottavo mese Cipresso Hinoki, Hinoki bianco

Nono mese Crisantemo, cresta di gallo

Inverno

Decimo mese Cornus cinese, nandina

Undicesimo mese Narciso, aster cinese

Dodicesimo mese Loquat (Eryobotria japonica, nespolo giapponese), pruno precoce.

Lo shin ha qui una funzione doppia: rappresentare la stagione o il mese e costituire il pilastro della struttura della composizione.

È possibile che anche le associazioni di vegetali prescritte dalla scuola di ikebana Ohara per la composizione dei paesaggi tradizionali tengano presente il valore simbolico di ogni pianta e fiore, oltre alla coerenza di stagione.

In effetti, nelle antiche radici religiose dell’ikebana possiamo trovare una chiave per comprendere il ruolo talismanico delle piante. Nel Buddismo, la sfera celeste è spesso descritta come un luogo pieno di fiori. L’interno dei templi buddisti era decorato con fiori per riprodurre nel nostro mondo la sfera celeste, e all’immagine di Budda si offrivano fiori, con incenso e candele – un gesto da cui può aver preso le mosse l’arte dell’ikebana. Ma ancor prima del Buddismo, in Giappone si credeva che le piante potessero incarnare o trasmettere il potere degli dei (kami), che si pensava abitassero nella natura.

Nei riti buddisti e nella devozione verso gli dei, le immagini della natura, specialmente dei fiori, erano certo un segno del carattere effimero del mondo, ma costituivano anche un mezzo per la manifestazione degli dei, che potevano tener lontane le malattie e la precarietà della vita.

La tradizione classica rappresentava elementi naturali partendo dagli oggetti estetici, mentre la cultura popolare prendeva spunto dagli elementi quotidiani (relativi all’agricoltura, alle prede di caccia o agli animali nocivi); queste due estetiche si fusero dal XVI secolo in poi: compaiono nelle descrizioni poetiche e nelle raffigurazioni pittoriche elementi della cultura popolare – ad esempio, uccelli campagnoli, come i passeri.

Questo paravento celebra il ricco raccolto autunnale. Il miglio maturo attrae molti uccellini – passeri, zigoli e cinciallegre –, cari alla cultura contadina. Vediamo anche uno steccato di bambù, una rete per catturare gli uccelli e i sonagli spaventapasseri che pendono da fili tesi, e richiamano la presenza di una fattoria. Accanto a loro, le erbe d’autunno, un motivo tradizionale della cultura “alta”, a testimoniare l’unione delle due estetiche, quella colta e quella popolare.

 

Infine, le stagioni erano molto importanti, anche perché a ciascuna era associato un punto cardinale, secondo il fūsui (cinese feng-shui), importato dalla Cina. Esso si basava sulla credenza che la terra contenesse forze vitali che dovevano essere salvaguardate per il benessere dei residenti. Le città erano progettate tenendo conto di questi criteri, e così anche ogni singola casa.

Il giardino basato sul fūsui con la primavera ad Est, l’estate a Sud, l’autunno ad Ovest e l’inverno a Nord divenne un ideale culturale, e si cercò di realizzare giardini in cui guardando nelle quattro direzioni si potessero vedere le quattro stagioni. Questo tempo utopico si trova in letteratura (ad es. nella Storia di Genji) e nella pittura di paraventi.

Ogni stagione è rappresentata attraverso un gruppo di fiori: ad es. l’estate, in basso al centro, da iris, giglio, garofano. I gruppi stagionali rispondono alla posizione tradizionale delle stagioni secondo il fūsui.

4 Il fluire del tempo e la magia che lo arresta

I mutamenti delle stagioni divennero una metafora per la transitorietà della vita e per i cambiamenti imprevedibili del mondo. Questa visione trovava un saldo appoggio nel convincimento buddista che tutte le cose sono impermanenti. Un esempio nella natura e nella stagione è rappresentato dai fiori di ciliegio, che perdono i petali appena sono fioriti.

Nijō Yoshimoto, un poeta classico, scriveva: “Quando pensi che sia ieri, oggi è passato, e quando pensi che sia primavera, è autunno. Quando pensi che i fiori siano sbocciati, le cose si cambiano nelle foglie colorate d’autunno.”

Sottrarsi al fluire del tempo è impossibile, certo; ma in qualche modo l’uomo ha bisogno almeno di rallentare la corsa dei giorni, e questo si può fare creando immagini che fissino alcuni momenti della vita; guardando quelle immagini, possiamo ritornare in quel tempo ogni volta che vogliamo.

In particolare, è ben vero che rappresentare tutte insieme le quattro stagioni ci ricorda il trascorrere di una fase nell’altra; ma questo avviene in modo singolare. Il ciclo, infatti, è un movimento rassicurante, perché la successione ritorna infallibilmente simile a se stessa, e quindi è almeno parzialmente prevedibile. Considerato nel suo insieme, è il tipo di movimento più stabile e fermo che ci sia.

È questo che mi ha affascinato nei paraventi dipinti delle quattro stagioni.

4.1 I paraventi dipinti

I paraventi, in giapponese byōbu, che qui ci interessano, hanno una lontana origine cinese (dinastia Han, 206 a.C. – 220 d. C.) e furono introdotti in Giappone nel tardo periodo Nara, attorno all’ottavo secolo. Byōbu significa letteralmente “muro per il vento”: il loro scopo originario era bloccare le correnti, abituali nelle case giapponesi a pianta libera, ma rappresentavano anche un modo agile e non rigido per dividere gli spazi. Nel successivo periodo Heian, il design dei paraventi evolvette da un semplice schermo a una sola anta fino a paraventi a due, sei o qualche volta otto ante. Erano pieghevoli e portatili, generalmente prodotti in coppia.

Su un semplice telaio a graticcio di legno di Cryptomeria, l’artigiano applicava sette diversi strati di carta incollata, ognuno dei quali era formato da molti fogli sovrapposti di carta a base di corteccia del gelso da carta (Broussonetia papyrifera). A strati alterni, i fogli erano incollati solo ai bordi, invece che sull’intera superficie, lasciando così tasche d’aria che aumentavano la resistenza e la durata del paravento. Lo strato più esterno su ambo i lati serviva da superficie da dipingere, ma generalmente per questa funzione ne veniva scelta una sola, contornata da un bordo di broccato. Tutt’attorno alla struttura c’era una sottile cornice di legno, laccata di rosso o di nero. Anticamente le ante erano collegate con cavi di pelle o di seta; a partire dal periodo Heian furono introdotte cerniere metalliche a forma di moneta, dette zenigata. Nel periodo Muromachi, le zenigata furono sostituite da fogli di carta ripiegata; i paraventi erano così più leggeri e più semplici da piegare; soprattutto, i confini tra i vari pannelli sparivano, permettendo la rappresentazione pittorica di scene ampie e continue.

Nei periodi Azuchi-Momoyama (1568-1603) e Edo (1603-1868), la popolarità dei paraventi dipinti continuò a crescere, e i signori feudali o nobili li mettevano in mostra nelle loro abitazioni come simboli di ricchezza e potere.

Due diversi stili caratterizzano i grandi dipinti dei castelli: uno stile a inchiostro, che rappresentava il modo di espressione più personale e più tradizionale; si sviluppò nel periodo Muromachi (1392-1568), sotto l’influenza dei modelli cinesi. Era usato principalmente nelle stanze private, dove i signori si riunivano per chiacchierare e bere il tè, e nei monasteri.

Tosatsu era allievo di Sesshū e conosceva i dipinti cinesi di uccelli e fiori del primo periodo Ming, in particolare i lavori di Lu Ji, che trattano il medesimo tema. Tosatsu dipinge sul primo paravento (di destra) una scena drammatica in cui un falco attacca in picchiata gli aironi terrorizzati, che fuggono verso il bambù e il loto. Un altro rapace, che serra una lepre fra gli artigli, osserva l’azione; le piante di fine inverno, primavera e inizio estate definiscono la stagione. Nel secondo paravento, mentre la natura va dall’estate all’autunno, la caccia degli uccelli da preda continua. Il tema dei dipinti è la potenza dei rapaci e Tosatsu, che era figlio di un samurai, sapeva bene che cosa significava in rapporto agli uomini.

La pittura a inchiostro cinese forniva anche la simbologia di alcune piante; ad esempio per i quattro vegetali, chiamati “i quattro gentiluomini”, che indicano le quattro stagioni, le quattro età dell’uomo e le quattro virtù del gentiluomo secondo i canoni dei letterati cinesi:

pruno carattere forte e paziente;

orchidea grazia e nobiltà d’animo;

crisantemo modestia e purezza;

bambù capacità del saggio di essere saldo ed energico, seppur flessibile – come il bambù,

che essendo cavo all’interno si piega ma non si spezza.

Ognuno di questi soggetti rappresenta anche una lezione di pittura a inchiostro: disegnare l’orchidea è il primo livello, l’esercizio sulla linea e sul libero movimento del braccio; solo dopo si può passare al bambù, per il quale sono necessari colpi brevi e vigorosi; la raffigurazione del pruno comporta una combinazione dei primi due tratti con l’aggiunta dell’esperienza di asciutto e bagnato; infine il quarto e ultimo gentiluomo, il crisantemo, serve ad imparare l’uso del chiaroscuro e per realizzarlo occorre saper disegnare i primi tre.

Assai diverso era lo stile di pittura con oro e colori, preferito per gli spazi pubblici, come le sale d’udienza. Si pensa che Kanō Eitoku sia stato il primo a usare uno sfondo con foglia d’oro in grandi dipinti (cfr. la figura seguente). Eitoku visse nel periodo Momoyama, fu il pittore più importante della sua generazione e l’iniziatore del nuovo stile dei castelli. La sua storia familiare e la sua ambizione lo portarono in contatto con tutti i grandi signori della guerra del suo tempo: Oda Nobunaga, per il quale Eitoku passò quattro anni a decorare con i suoi allievi le enormi sale d’udienza del castello Azuchi; Toyotomi Hideyoshi, per il quale lavorò nei castelli di Osaka, nel Juraku-dai e nel castello Fushimi; fu anche chiamato a dipingere nel palazzo imperiale. Era un lavoro gigantesco: ad esempio, nel 1588 il signore Hideyoshi aveva creato un percorso fra cento paraventi dipinti perché i suoi invitati arrivassero alla festa per ammirare i ciliegi fioriti (hanami). Tuttavia Eitoku viveva in un’epoca turbolenta, e la maggior parte dei suoi lavori seguì il destino dei proprietari: per esempio, con l’assassinio di Nobunaga il castello Azuchi fu bruciato fino alle fondamenta appena due anni dopo che Eitoku aveva terminato di dipingerlo.

 

 

 

4.2 Uccelli e fiori delle quattro stagioni: tre esempi

 

 

 

Questa categoria pittorica, di cui abbiamo visto anche sopra alcuni esempi, è un classico di tutto l’estremo Oriente; in particolare ho già fatto riferimento alla precisa tradizione codificata giapponese che assegna agli elementi naturali caratteristiche che devono essere lette in riferimento alla vita degli esseri umani. Gli uccelli intervengono così a dare movimento alle scene dipinte e ad arricchirle con la simbologia che è loro propria.

Lungo i dodici pannelli di questi due paraventi, una profusione di uccelli e fiori simbolici celebra il ciclo delle stagioni. Nel paravento di destra, alberi in fiore e fiori di primavera accompagnano una gru con i suoi piccoli, mentre più a sinistra un ceppo di gigli annuncia la transizione all’estate. I quattro pannelli centrali della coppia sono occupati da un gruppo di bambù, che si scorgono fra le nuvole. Nel paravento di sinistra, un ibisco bianco e rosa segna il passaggio dalla tarda estate all’autunno; il gran finale è costituito da un pino coperto di neve che stende i suoi rami incurvati attraverso il paravento e incornicia una coppia di gru adulte, che si guardano maestosamente. La pittura dettagliata e realistica degli elementi naturali in primo piano, tipica della scuola Kanō, è bilanciata con nuvole e altri elementi di sfondo più astratti, ed anche con ampi spazi vuoti.

Questa magnifica composizione celebra la longevità con il motivo augurale delle gru, parla di forza virile e imperturbabilità con il pino, ricorda il carattere effimero della bellezza e della vita con il ciliegio fiorito, e rappresenta via via i simboli delle altre piante, che un osservatore dell’epoca non faticava a leggere chiaramente.

Il fiume del tempo scorre dall’uno all’altro dei paraventi, ma anche non scorre, essendo solo dipinto; vale come memento, ma lo scenario in cui si colloca è talmente armonico, bello e splendente che il suo fluire non desta pensieri tristi.

La forma del ventaglio dansen incornicia le due immagini, che si aprono sulle stagioni come due finestre, due quadri nel dipinto. Lo scorrere del tempo pare interrotto, separato dal vuoto tra una stagione e l’altra. Lo sfondo astratto rende ancor più evidente l’aspetto simbolico delle scene. Questo paravento sembra dire: “Diamo uno sguardo all’autunno e all’inverno”.

Sul rovescio della seta è applicata la foglia d’oro, che dà al dipinto una leggera luminescenza e un senso di profondità. Sulla destra, le sette erbe dell’autunno, con i crisantemi e l’ibisco, rappresentano l’autunno nelle sue varie fasi; a sinistra, l’inverno è evocato dai narcisi, dalla camelia sasanqua e dal pruno, sempre con gli uccelli relativi alla stagione. Non ci è rimasto il paravento gemello di questo, che doveva rappresentare primavera ed estate.

La nebbia primaverile e la bruma autunnale scorrono fra le stagioni al posto del ruscello tradizionale. Un pruno fiorito, con un uguisu che vi si è posato, annuncia la primavera al di là di un alto steccato; la kerria, che rappresenta la stagione più avanzata, si protende verso l’estate, simboleggiata da iris, uccelli e fiori di palude. Nel secondo paravento, erbe autunnali e piante coperte di neve sono illuminate da una luna d’argento, che noi vediamo ormai brunita dal tempo.

 

Questo disegno semplice ed elegante riflette lo stile della scuola Rimpa, di cui Hōitsu era a capo a Edo (oggi Tokyo). Le sue composizioni aderiscono al modello di Kōrin sia nei colori che nell’audace scarsità di elementi. Vediamo bene sul tronco del pruno che anche Hōitsu utilizza la tecnica Rimpa del tarashikomi, (letteralmente far gocciolare). Essa consiste nel far stingere un secondo pigmento sul primo, ancora umido. In questo modo si creano fra i colori macchie e interazioni, in parte involontarie, che incrementano l’interesse visivo della superficie. Nella pittura Rimpa, è voluto il contrasto tra il disegno molto stilizzato e raffinato dei fiori e questa tecnica più rustica applicata ad altri elementi.

 

Vediamo che poco, pochissimo basta ormai a evocare il sentimento della stagione. Quello che importa nei dipinti, dopo centinaia di anni in cui i medesimi elementi sono riprodotti nella pittura, è l’emozione che l’artista riesce a ricreare in chi osserva. Qui, mi pare che ci sia un senso di solitudine e di distacco: non si vede – o forse, nella percezione soggettiva, non si sa – come ogni stagione trascorra nella successiva, perché tutto è velato dalla nebbia. Ogni fase può sembrare anche isolata dalle altre: invece di una sinfonia, una serie di note “staccate”. Una musica moderna.

 

 

 

 

5 Conclusioni

 

 

 

A tutto quello che si è detto fin qui, si potrebbe obbiettare che le stagioni sono importanti in tutte le culture del mondo. Tuttavia, quello che rende la cultura giapponese delle quattro stagioni davvero impressionante è la stagionalizzazione culturale, in particolare la suddivisione precisa degli elementi naturali in fasi e categorie stagionali con associazioni specifiche, ed il fatto che questa operi per più di un millennio.

 

I primi collegamenti poetici fra elementi naturali e culturali non sono stati del tutto sostituiti nel tempo, ma piuttosto in parte modificati e intessuti con elementi nuovi. Così, le credenze sui poteri talismanici di piante e animali, apparsi dapprima nei periodi antico e Nara, hanno continuato a coesistere con le rappresentazioni eleganti della natura, basate su colore, profumo e voce, della cultura aristocratica e di corte del periodo Heian. Queste, a loro volta, sono rimaste presenti nel periodo medievale, insieme con i paesaggi monocromatici di influenza cinese. Nel periodo Edo, la visione più antica è proseguita al fianco delle nuove prospettive sulla natura fornite dalla ricerca scientifica.

 

Ne risulta una trama complessa e fitta, tuttavia ben radicata nella cultura giapponese. I dettagli fanno parte di un vocabolario canonico, tanto che, ad esempio, i titoli dei paraventi dipinti sono generalmente attribuiti solo oggi, dai curatori museali: infatti, quando essi furono creati, non avevano bisogno di portare un nome: si guardavano e a prima vista si otteneva l’associazione emotiva che portavano con sé.

 

 

 

In questo lavoro non ho preso in considerazione molti altri aspetti interessati dalle associazioni stagionali: l’abbigliamento, le festività annuali, le relazioni interpersonali, la cerimonia del tè; non ho neppure seguito lo sviluppo del sistema di parole stagionali (kigo) dalla creazione nella poesia waka fino allo haiku moderno e non ho fatto alcun cenno ai rapporti sociali di cui questa visione della natura era espressione. Anche solo l’elenco delle implicazioni del sentimento giapponese per le stagioni mostra la centralità del ruolo che esso riveste nella cultura di quel Paese e la ricca, affascinante complessità di questo tema.

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

Arte dell’Estremo Oriente, a cura di Gabriele Fahr-Becker, Könemann 2000.

 

Graf, Mauro: www.maurokorangraf.ch/ art. N. 59.

 

Lippit, Yukio: Ink Painting and the Rinpa Tradition, Conferenza al Metropolitan Museum, New York, 30/09/2012.

 

Masera, Maria: Appunti orientativi sulla scuola di pittura Rimpa “Scuola dei fiori e delle erbe”, dispensa del corso di Ikebana.

 

Momoyama – Japanese Art in the Age of Grandeur, Catalogo della mostra tenutasi al Metropolitan Museum, New York, 1975.

 

Shirane, Haruo: Japan and the Culture of the Four Seasons – Nature, Literature and the Arts, Columbia University Press, New York 2012

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65 “errori da evitare”

Le regole costruttive dell’ikebana della Scuola Ohara derivano principalmente da quelle del Seika che, a loro volta, derivano dalla semplificazione delle regole compositive del Rikka create nel 15° e perfezionate nel 16° secolo.

 

Sin dall’inizio della formazione delle regole riguardanti la costruzione dei Rikka, i vari autori evidenziavano gli “errori da evitare”.

 

 

disegno anonimo di un Rikka con un elenco di 13 “errori da evitare”, ancora validi ai nostri giorni per tutti i tipi di ikebana legati alla tradizione quali la simmetria fra gli elementi o la loro sovrapposizione o “l’arrampicata sociale” di un singolo elemento così nominato poiché non mantiene la sua funzione ma tenta di assumerne un’altra, creando quasi un doppione.

 

Con l’apparire dei Seika/Shoka gli stessi errori vengono esemplificati nei vari testi:

 

da autore anonimo

 

ripetuti in tutti i testi scritti in inglese

 

fra i molti esempi, quelli citati da Mary Cokely Wood e presi dai libri di sua proprietà, datati 1688 e 1750, esemplificano bene questi “errori” con disegni che mostrano in modo semplificato ed esagerato ciò che l’ikebanista deve evitare; eccone alcuni esempi:

 

 

 

 

 

nei Rikka, almeno fino al periodo Edo, si utilizzavano solo rami per gli elementi principali che la Scuola Ohara chiama shu, fuku e kyaku mentre i fiori venivano utilizzati solo all’interno della composizione perciò l’esempio del testo più antico arrivato fino a noi Kao Irai no Kadensho (1486) utilizza solo rami per esemplificare questi “errori da evitare”

 

 

L. Sadler, nel suo the Art of Flower Arrangement in Japan, mostra questo schema con le spiegazioni

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64 ikebana e triade buddhista

 

Il sincretismo religioso è una delle caratteristiche della cultura giapponese e lo si ritrova nella simbologia dell’ikebana.

 

ricostruzione storica di Sōhei medioevali

 

Mentre in Occidente ci sono state guerre di religione causate dalla riforma protestante e dallo scisma anglicano, in Giappone si è sempre applicato il detto “il nuovo si aggiunge al vecchio senza soppiantarlo”  e all’arrivo di nuove religioni o filosofie, queste sono state incorporate nei sistemi preesistenti; esistevano i monaci-guerrieri (Sōhei) ma questi combattevano non per difendere la loro religione bensì per avere o mantenere dei privilegi sui territori dei tempi, sulle tasse oppure causa discordanze sulle nomine  degli abati, di solito decise dalla corte imperiale.

 

Il buddhismo, introdotto in Giappone nel 538 d.C., si aggiunse allo shintoismo, religione autoctona, e nei circa novecento anni trascorsi prima dell’apparire dell’ikebana nel 15° sec., le simbologie delle due religioni si combinarono e le regole dell’l’ikebana si formarono basandosi su di esse.

 

 

Lo Stile “primordiale” dei Tatebana e Rikka, da cui derivano tutti gli altri stili tradizionali di tutte le Scuole, corrisponde a quello che la Scuola Ohara chiama stile alto o diritto in cui il ramo più importante è al centro e in posizione verticale; i rami principali del Rikka erano 7 o 9 e nel disegno a lato sono indicati, fra i 9 elementi principali, quelli che diventeranno i tre elementi principali nello stile alto della Scuola Ohara.

da evidenziare che nel Rikka:

A: shu e fuku sono relativamente vicini mentre kyaku è più distante

B: shu e fuku sono nel lato yang, al sole, della composizione mentre kyaku   è  nel lato yin, all’ombra (vedi art. 15°)

 

 

Nel periodo Edo il Rikka viene semplificato nello Shoka/Seika mantenendo solo i tre rami indicati e vengono mantenute le regole:

 

A: shu e fuku sono relativamente vicini mentre kyaku è più distante (vedi anche art. 62°)

B: shu e fuku, essendo nel lato yang della composizione, sono dello stesso materiale vegetale e questi dev’essere yang (ramo) rispetto a kyaku che dev’essere yin (fiore) rispetto al gruppo shu-fuku

C: dei 7 o 9 rami principali del Rikka, si sceglie di mantenerne tre

i tre concetti A , B e C derivano dall’unione di un simbolo buddhista (triade buddhista) con un simbolo taoista (tai-ji, suddiviso in lato yang e lato yin).

 

 

 

La triade buddhista è stata introdotta in Giappone (verso il 550 d.C. inizio periodo Asuka) con i dipinti rappresentanti Buddha in piedi, sempre al centro e contornato da due personaggi minori, che cambiavano a seconda delle necessità;

il personaggio alla destra di buddha è vicino mentre quello alla sua destra è relativamente più lontano

 

Già nel periodo Heian (794-1185) nei giardini si posavano tre pietre rappresentanti la triade buddhista

riprodotte poi sui kakemono

e nei disegni

 

 

 

 

la roccia centrale 1 e quella alla sua destra 2 sono relativamente più vicine e rappresentano la parte yang/maschile del tai-ji mentre la terza roccia 3, a sinistra della principale, è relativamente più distante e anteriore e rappresenta la sua parte yin/femminile.

Vedi anche art.53°, dall’ikebana ……..alla cucina

 

 

tai-ji

interessante questo disegno preso da un trittico di Utagawa Kunisada (1786-1865) rappresentante uno degli attendenti del dio Fudō Myōō in cui i due fiori di loto con foglia sono disegnati seguendo lo schema della triade buddhista evidenziando anche la transitorietà nell’apertura differente dei due fiori e la suddivisione del numero 3 in 2 + 1 col lato yang/fiori e lato yin/foglia  vedi art. 62°

 

La disposizione della triade Buddhista la ritroviamo frequentemente nella pittura e, di conseguenza, anche nelle fotografie, quando queste furono introdotte in Giappone.

 

 

 

Gessai Gabimaru (1789-1818)

 

 

 

Interessante notare che il pittore impressionista belga René Magritte (1898–1967) ha usato questo schema compositivo in questi due famosi dipinti in cui è evidente la disposizione degli elementi nella forma della triade buddhista e nella disposizione 

5 = 3 + 2      vedi Art. 69

 

 

Nella pubblicità occidentale lo schema della triade è usato frequentemente come in questo caso del circo americano Barnum in cui i tre orsi più grossi sono disposti secondo lo schema della triade con quello al centro e alla sua destra maschili e il terzo femminile mentre gli altri orsi più piccoli e gli uomini sono solo degli ausiliari

 

 

oppure in questa pubblicità attuale svizzera della Coca Cola con le montagne svizzere idealizzate e disegnate in una variante  (il terzo elemento più piccolo è posteriore agli altri due) della triade.

 

Ritornando all’ikebana vediamo che le regole dispositive originatesi con la triade buddhista sono state mantenute dalla Scuola Ohara

 

 

A: shu e fuku sono relativamente vicini mentre kyaku è più distante

B: shu e fuku, essendo nel lato yang della composizione, sono dello stesso materiale vegetale e questi dev’essere yang (ramo) rispetto a kyaku che dev’essere yin (fiore) rispetto al gruppo shu-fuku

C: il numero tre della triade è stato mantenuto nell’uso di tre elementi principali (shu, fuku e kyaku)

 

 

il concetto della triade buddhista è ancora applicato nella disposizione delle cinque pigne -yang-: due grandi messe come shu e fuku con tre piccole nel ruolo di ausiliari; il fiore rosso -yin- è posto nell’angolo

 

 

Interessante questa composizione di Kawase Toshiro, attuale maestro ikebanista molto noto,  in cui i concetti esposti sono evidenti: disposizione triade buddhista, elemento più importante al centro (kakemono), secondo elemento alla sua destra di “forza” media (dai color rosso e alto) e “vicino” all’elemento principale-kakemono (ramo di pino lo copre), terzo elemento alla sua sinistra che è il più “debole”  dei tre elementi (vaso più sottile rispetto all’altro, dai colore scuro e basso) e più “separato” dal kakemono.

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63 wu xing (cinque agenti) e ikebana

 

 

 

La teoria del Wu Xing ha influenzato tutta la cultura giapponese quindi anche l’ikebana.

 

Per il Taoismo, l’interazione di yin e yang è espressa attraverso cinque manifestazioni base dell’energia ossia i cinque elementi:

terra, acqua, fuoco, metallo e legno

Il termine non si riferisce ai cinque elementi che si possono trovare ovunque in natura, ma è una metafora che si riferisce ai cinque modi attraverso cui il Qi si esprime nell’universo. I cinque elementi sono semplicemente una figura simbolica per rappresentarele cinque fasi di movimento del Qi.

 

 

Le cinque fasi, rappresentate dagli elementi terra, acqua, fuoco, metallo e  legno , sono raffigurate nella loro forma simbolica visibile a lato (riproduzione attuale/moderna) chiamata GORINTO

 

I gorinto sono comuni nei tempi e cimiteri buddhisti

 

nel sincretismo religioso giapponese, i cinque elementi rappresentano il corpo di Buddha

 

Anche se non è necessario per l’ikebanista conoscere nei dettagli la complicata  teoria del Wu Xing, è affascinante vedere come nei vecchi testi di ikebana la teoria sulle regole compositive del Rikka formale/shin (vedi art. 21°), che è all’origine di tutti i successivi stili inclusi quelli della Scuola Ohara,  sia in concordanza e rappresenti anche i cinque elementi del wu xing come evidenziano questi disegni.

 

 

i nomi usati dalla Scuola Ohara shu, fuku e kyaku sono stati inseriti sopra quei rami del Rikka che diventeranno i suoi tre rami principali.

 

Nei vecchi testi è evidente anche la concordanza fra gli esagrammi dell’I CHING e l’ikebana

 

 

concordanza presente anche nella costruzione e disposizione degli spazi nella capanna per la Cerimonia del tè fra i trigrammi dell’I Ching e le disposizioni dell’ambiente.

 

Nel periodo Tokugawa l’I Ching ( Libro dei Mutamenti ) era un testo di capitale importanza, molto seguito e la teoria yin-yang (vedi art. 15° e 23°) con quella dei cinque agenti  (wu xing) erano il fondamento teorico  nell’astronomia, medicina, botanica, matematica, architettura e molte altre arti, Chanoyu e Ikebana compresi: queste teorie, conosciute prima del 1600 da relativamente poche persone (nobiltà shogunale e imperiale e alti prelati buddhisti), nel periodo Edo si diffusero fra i sempre più numerosi ricchi cittadini della classe degli artigiani e mercanti (chonin), persone che, benché nel gradino più basso della scala sociale Tokugawa, furono creatori e patrocinatori di nuove forme d’arte e contribuirono, con altri fattori, alla fine dello Shogunato.

 

 

 Per quanto riguarda l’Ikebana, secondo Wai-ming Ng, autore di “The I Ching in Tokugawa Thought and Culture“, 1962,  questa era l’arte in cui questi princìpi  erano più applicati rispetto alle altre arti e in un testo di fine 1700  (Trasmissioni orali dell’ikebana della Scuola Sen) si specifica perentoriamente che: “la composizione, se non è basata su questi princìpi, non è un Ikebana”.

 

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62 uso dei numeri dispari nell’ikebana

vedi prima art. 30° -asimmetria nell’ikebana-

Nella cultura tradizionale giapponese, e quindi anche nell’ikebana, prima dell’occidentalizzazione  i numeri dispari, poiché yang, erano preferiti ai numeri pari, ritenuti yin ( ricordando che il 2 è l’unico numero pari accettato poiché considerato la somma di yang + yin); di solito nelle composizioni si usano 3 o 5 elementi ed è interessante notare che, in generale, il numero 3 è frazionato in 2 + 1 mentre il numero 5 è frazionato in 3 + 2 :

 

3 = 2 + 1                                           5 = 3 (2+1)+ 2

 

 

 

Quando si usano tre fiori, di solito due vengono raggruppati e sono più vicini al centro della composizione mentre uno è tenuto più lontano come ad esempio in queste composizioni  della Scuola Ohara

 

Hana-isho, forma elementare

Moribana,stile obliquo

 

3 = 2 + 1

 

 

i  fiori del gruppo di 2, che appaiono molto vicini visti frontalmente, in realtà non lo sono, come si vede dalla foto laterale della composizione in cui il fiore corto misura circa la metà di quello a cui appare vicino

 

 

Moribana stile Alto  con -Fascia di Colore- in cui le 3 celosie rosse sono raggruppate  2 + 1

 

tutte le foto Scuola Ohara

 

Moribana stile Alto

 

N.B 1: nei due Stili del Moribana della scuola Ohara più usati (Alto e Obliquo) e più legati all’origine storica dell’ikebana, le inserzioni dei tre elementi principali sono pure suddivise in 2 + 1 ossia  (2) shu e fuku, più vicini + (1) kyaku più lontano, come è ben visibile in questi esempi di Moribana stile Alto e stile Obliquo       vedi art. 15°

 

 

 

 

N.B 2: oltre che apparire otticamente suddivisi in 2 + 1 , anche le inserzioni  dei 3 fiori, che di solito formano il gruppo kyaku negli stili Alto e Obliquo, sono suddivise in 2 + 1 come è evidente in questo esempio di Moribana stile Alto in cui il crisantemo giallo kyaku e suo ausiliare basso sono inseriti vicini nel kenzan anteriore mentre il suo ausiliare alto è inserito più distante, davanti a shu

Questo modo di associare tre o cinque elementi è comune con le arti figurative;  ecco alcuni fra i numerosi esempi con 3 elementi:

 

trittico di Toyohara Kunichika (1835 – 1900) in cui i tre ombrelli sono riuniti 2 + 1

 

per evitare la  monotonia, quando è possibile, la suddivisione 2 e 1 del gruppo non corrisponde alla suddivisione 2 e 1 delle forme o colori perciò un elemento nel gruppo di 2 è simile a quello singolo mentre l’altro è differente: fiore in boccio nei gigli di Koson, colore chiaro nei kaki, gru bianca di Okyo e pipistrello piccolo.

 

 

Tomizo Saratani (1949 – )

Seite Watanabe (1851-1918) Uccello e kaki

 

 

  

anche in questo famoso disegno di Sengai

i tre elementi sono suddivisi in 2 + 1 (lettura da destra a sinistra)

con cerchio e triangolo  color nero e  parzialmente sovrapposti

differenti dal quadrato color grigio e più separato dai due

 

 

anche in questo tsuba rappresentante i tre Saggi (Buddha, Confucio, LaoTse) che provano l’aceto, la disposizione 2 + 1 è evidente

 

 

in queste tre ante di un paravento

di Kano Tan’yu (1602-1674)

le 3 chiome del pino sono suddivise in 2 + 1

 

 

Questa ripartizione del 5 in 3+2 la ritroviamo pure nella disposizione del cibo nella cucina kaiseki

 

 

In questo disegno, tratto da un libro d’ikebana in cui si raccomanda il mettere dell’acqua zuccherata all’interno dei calici dei fiori delle camelie per evitarne l’improvvisa caduta, è evidente la distribuzione delle foglie in 5 e 3 con l’ulteriore suddivisione del 5 in 3 + 2 e il 3 in 2 + 1

 

 

Anche in questo disegno la cortigiana ha in mano 5 camelie suddivise in 3 (2 piccole + 1 grande) + 2 (1 grande + 1 piccola)

 

Anche nell’ikebana i tre fiori vengono raggruppati in 2 + 1 ma sempre della stessa specie e colore, differenziati fra di loro seguendo un concetto diverso: vedi articolo 56° -i sei kaki di Mu Qi-

 

 

 

 

Quando ci sono 5 fiori, di solito, l’associazione è   3 + 2

come vediamo nella -Fascia di Colore- di questi due Moribana in cui i 5 garofani e le 5 celosie sono raggruppati   in 3 + 2

 

 

modo che ritroviamo, ad esempio in questo disegno di Koson in cui il gruppo di 5 aironi è differenziato in 2 col collo teso e 3 col collo piegato

 

5 = 3 + 2

 

 

 

nel disegno, Passeri e salice di Hokusai, ritroviamo lo stesso schema di distribuzione  3 + 2 sia nei due gruppi di uccelli (3 bianco/neri + 2 neri) ma, distribuiti in modo differente, anche nei colori (3 neri + 2 bianchi).

 

 

Stessa suddivisione nei fiori del  disegno Iris e falena di Kiitsu (la parte alta del disegno con la falena è stata omessa): in alto un gruppo di 5 (suddiviso in 3 aperti + 2 chiusi  ma in modo differente nei colori, 3 chiari + 2 scuri) e in basso un gruppo di 3 ( 2 aperti + 1 chiuso e, in modo differente, nei colori)

 

Katsushika Hokusai (1760-1849)

 

   

 

interessante notare come il gruppo di 3 sia suddiviso a sua volta in 2 + 1 ossia le due donne sono unite poiché tengono la tela, due uccelli in volo più vicini in Koson, due anatre a terra col collo teso, due pesci piccoli più vicini, due melograni col pappagallo in Keinen, due daini visti da dietro rispetto ad uno visto davanti in Kasamatsu.

 

anche nel dipinto di Kasamatsu la distribuzione delle suddivisioni 3 + 2 dei due gruppi non si sovrappone alla suddivisione 3 + 2 dei 3 daini visti da dietro + 2 visti davanti.

 

 

in questa foto eseguita al computer e che ha ricevuto un premio nel 2012 ritroviamo la stessa distribuzione tradizionale 5 = 3 (2+1) + 2

 

 

Per l’ikebanista Ohara è interessante notare che la suddivisione 3 = 2 + 1  e  5 = 2 + 3 la si ritrova nella disposizione delle foglie di Iris (hagumi) nel gruppo frontale ( che indica la stagione: 5 in Primavera e 3 in Estate) nei Paesaggi Tradizionali:

 

Primavera: 5 = 3 + 2
2 foglie “grandi” + 3 foglie “piccole”
(le 3 foglie piccole suddivise ulteriormente in 2 davati e 1 dietro)

Estate: 3 = 2 + 1
2 foglie “grandi” + 1 foglia “piccola”

 

 

Nell’emakimono di Kano Sanraku (1559-1635) , intitolato cento camelie, ritroviamo frequentemente la suddivisione 5 = 3 + 2 e 3 = 2 + 1

 

 

 Questa ripartizione del 5 = 2 + 3 la ritroviamo ancora nella disposizione del cibo:

 

sul tavolino ci sono3 contenitori rotondi + 2 oggetti allungati (vasallame + bacchette)

 

e in molte altre situazioni come in queste immagini su scatole di fiammiferi che, con piccole variazioni, ripetono il tema della suddivisione  3 = 2 + 1 e 5 = 2 + 3; in tutti questi disegni è evidente la gerarchia, simile a quella dell’ikebana, sia nella disposizione di 3 elementi che in quella con 5 elementi in cui ai 2 elementi più importanti (simili a shu e fuku) sono associati tre elementi meno importanti (simili ai tre ausiliari del gruppo shu-fuku)

 

 

 

 

 

 

Nell’ikebana,

contrariamente alla maggioranza degli esempi dei dipinti mostrati sopra,  i 5 fiori sono suddivisi 2 + 3  ma tutti e cinque i fiori sono della stessa specie e colore, senza (o con poca, vedi art. 56°) differenziazione fra di loro.

 

 

 

Questo modo di frazionare i numeri dispari   3 = 2 + 1 e    5 = 3 + 2 lo ritroviamo nella disposizione delle 3 o 5 foglie di acero nelle composizioni autunnali  -Foglie di acero cadute- ( vedi artcolo  59° )

 

Foglie di acero cadute-

 

 

 

da notare anche la suddivisione 2 + 1 dei tre gruppi di crisantemi gialli

 

come pure i tre frutti gialli rotondi in questo morimono

o nei 5 crisantemi gialli di questo Rimpa

in cui è evidente la suddivisione dei crisantemi nei due gruppi

 

(2 + 1 =) 3 + 2 = 5

 

molto probabilmente questo modo di disporre 3 o 5 oggetti deriva dalla tradizione di disporre le rocce, a sua volta derivante dalla triade buddhista associata al taoismo ( vedi articolo 39° -suiseki e ikebana_)

 


 

“il nuovo si aggiunge al vecchio senza soppiantarlo”

 

particolare di un’illustrazione del 12° sec. del Genji monogatari con 5 pini, suddivisi 3 + 2 , disegnati su un fusuma

 

 anche in questo paravento di uno degli ultimi esponenti dello stile rimpa, Kamisaka Sekka (1866–1942), gli unici tre iris bianchi sono suddivisi in 2 + 1 e inoltere è evidente la transitorietà nella schiusura differente dei tre fiori  vedi Art. 22°

 

 

foto pubblicitaria di bambole giapponesi che mostra l’attualizzazione delle regole esposte in cui le 5 bambole sono suddivise in 3 + 2 con le 3 grandi suddivise ulteriormente in 2 + 1

 

 

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61 la camelia nella cultura giapponese e nell’ikebana

 

 

 

 

 

Lo svedese Karl von Linne (1707-1778) -più conosciuto col suo nome latinizzato di Linneo-, è l’autore della classificazione sacientifica degli esseri viventi che usiamo ancora oggi: quando dovette trovare un nome scientifico per il genere CAMELLIA, lo scelse in onore di Joseph Kamel (1661-1706, gesuita, botanico e farmacista ceco) usando il suo nome latinizzato CAMELLUS ; Kamel probabilmente non vide mai una camelia poiché attivo nelle Filippine e non in Giappone o Cina ove questa specie è autoctona.

 

Le due specie più usate in ikebana sono la Camellia japonica e la Camellia sasanqua mentre la Camellia sinensis è usata per la produzione del Tè.

 

La Camellia japonica si chiama in giapponese tsubaki, lettura kun (vedi art. 50° lingua giapponese) del kanji composto da albero e primavera, caratterizzata dal fatto che il fiore non cade petalo per petalo ma si stacca improvvisamente e casca intero; fiorisce in primavera.

 

 

La sua lettura on è chin, lettura che ritroviamo nella parola chinji, parola composta da due kanji significanti camelia e cosa che avviene ossia cosa che avviene come nella camelia cioè qualcosa che si verifica d’improvviso, inaspettato ossia un incidente bizzarro.

 
La Camellia sasanqua in giapponese si chiama sazanka: fiorisce in inverno e i suoi petali cadonono uno per uno, come nella maggior parte dei fiori. Questo nome è composto da tre kanji che, nella lettura ON/KUN, si leggono san/yama (montagna), sa o cha (tè) e ka/hana (“fiore”): questi tre kanji ci rammentano che il Tè si faceva sia con le foglie della Camellia japonica che con quelle della sasanqua, anche se il suo contenuto di caffeina è minore ed era meno apprezzato del Tè della Camellia sinensis.

 

 

 

Riguardo al colore, nella tradizione giapponese prima del periodo Edo, la camelia rossa, autoctona del Giappone e quindi abbondante, era ritenuta “popolare” in contrapposizione a quella di colore bianco, rara, ritenuta “nobile” poiché offerta, secondo la leggenda, per la prima volta all’imperatore Tenmu (631-686), 40° Tenno del Giappone.

 

esempi di paraventi con solo camelia bianca:

 

“pino e camelie” di Yusho Kaiho, inizio 1600

paravento di Sakai Hōitsu (1776-1828)

 

 

 

Nei periodi Nara ed Heian la camelia non è un soggetto favorito nell’arte o nella letteratura e ad essa venivano preferiti altri vegetali come i rami di MATSU (pino) rami fioriti di UME (susini giapponese), del TACHIBANA (mandarancio), di SAKURA (ciliegio).

Nell’articolo n° 59 si  parla della stagionalizzazione della natura che ha selezionato le scelte dei vegetali nelle arti e nell’ikebana. Questa stagionalizzazione è partita dalla poesia: la camelia è citata solo in 9 poemi su 4516 nel MAN.YŌ-SHŪ mentre non appare mai  nei 1111 poemi del KOKIN WAKA SHU. Per questa ragione anche nelle prime forme di ikebana, Tatebana e Rikka, essa veniva poco usata, tenendo conto anche della sua fragilità  (evidenziata già  in una delle 9 poesie nel MAN.YŌ-SHŪ, di autore ignoto)

 

 

 

Nei periodi Kamakura-Muromachi-unificazione (1185-1600) i samurai avevano come principale riferimento la culturale dell’aristocrazia imperiale (a cui vi aggiunsero del proprio come la Cerimonia del Tè e l’ikebana) perciò i vegetali preferiti rimasero quelli preferiti dalla Corte imperiale ossia principalmente i rami fioriti e i sempreverde.

 

 

 

La camelia japonica, già  non prediletta nei periodi Nara e Heian, fu ancora meno apprezzata dai samurai in questi periodi di continue battaglie causa la peculiarità  del suo fiore di staccarsi improvvisamente e cadere intero a terra, chiaro richiamo per i samurai di alto grado al rischio di venir uccisi in guerra ed esser poi decapitati, comune consuetudine per contare quanti nemici erano stati uccisi (la testa veniva mostrata come prova concreta dell’avvenuta vittoria).

 

 

Già  nel testo più antico specifico sull’ikebana, il Sendeshō, datato 1445, si specifica:

Non usare i fiori di camelia e di rododendro, poiché ambedue si staccano facilmente, l’acero, le cui foglie appassiscono e si accartocciano in poche ore, ed altri vegetali con lo stesso comportamento “infausto”.

Per i motivi spiegati, nell’ikebana la camelia fu poco usata prima del 1600, inizio del periodo Edo.

Tre esempi di Rikka in cui la camelia è usata con molta parsimonia e solo alla base della composizione.

 

 

Poco considerato nei periodi precedenti, il periodo Edo (1600-1868) fu il “periodo d’oro” di questo fiore: i primi tre shogun Tokugawa, che governarono il Giappone dal 1600 al 1651, lo amavano moltissimo e ne conseguì, per imitazione, che sia i vari daimyō (obbligati dal sankinkotai -soggiorno obbligatorio- ad avere una residenza ad Edo) sia la crescente classe dei ricchi cittadini commercianti/artigiani cominciassero a coltivare varie specie di camelie nei loro giardini privati e la camelia divenne molto popolare: di conseguenza fu usata anche nell’ikebana nei suoi nuovi stili shōka/seika apparsi in quel periodo storico.

 

 

Si iniziò ad usare la camelia solo come kyaku (terzo elemento scuola Ohara)

per poi usarla anche come elemento principale

 

 

La popolarità  della camelia anche fra i samurai è confermata dal fatto che essa appare  quale decorazione negli tsuba (proteggi-mano della spada) o negli elmi da parata: ora che non c’erano più guerre e non si rischiava di perdere la testa in battaglia, anche gli appartenenti alla casta dei guerrieri (diventati prevalentemente dei burocrati) sfoggiavano anche la camelia quale ornamento nelle armature usate durante le parate militari, non più ritenuto simbolo  infausto.

 

 

esempio di tsuba (proteggi mano)

 

 

 

 

 

Anche i ricchi commercianti/artigiani, non potendo per legge ostentare la loro ricchezza negli abiti, pagavano profumatamente gli artisti che producevano stupendi netsuke, non sottoposti ad alcuna legge restrittiva, come questi due raffiguranti la camelia bianca.

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel periodo Edo le foglie di camelia venivano anche utilizzate come surrogato del costoso tabacco, introdotto dai portoghesi; le foglie venivano tranciate sottilissime e usate nelle pipe o, intere, arrotolate come una sigaretta.

 

 

 

Sempre nel periodo Edo l’uso della pipa era una moda delle cortigiane di alto livello, come si vede nel disegno a sinistra, in cui una cortigiana accende la sua pipa dall’altra o quello a destra, in cui una cortigiana pulisce la sua pipa con della carta.

 

 

La camelia rossa, ora molto popolare, appare frequentemente con la bianca nei disegni dei paraventi, ventagli, kakemono, vasellame ed è disegnata da sola o, seguendo la tradizione, associata a piante da fiore, al pino, al salice, associazioni che si ritrovano nell’ikebana tradizionale.

 

Sakai Hōitsu (1776-1828)

camelia dai 5-7 colori, Gyoshu Hayami (1894-1935)

piatto di anonimo

kakemono di Utagawa Hiroshige (1797-1858)

paravento, Hasegawa Totetsu 17° sec.

 

Il museo Nezu di Tokyo possiede due interessanti emakimono attribuiti a Kano Sanraku (1559-1635), intitolati “disegno di 100 camelie”, in cui sono visibili 100 differenti  qualità  di camelie in varie situazioni e intercalate da poesie scritte da 49 differenti poeti, inclusi membri della Famiglia Imperiale, daimyo, alti prelati buddhisti, che confermano la popolarità  della camelia e la presenza di almeno 100 differenti tipi di fiori già  comunemente coltivate all’inizio del periodo Edo.

 

 

 

La camelia è il soggetto anche di vari HAIKU; fra gli autori più conosciuti Basho e Buson

 

 

 

Nell’ikebana, ora che la possibilità  di decapitazione in guerra non esiste più, la camelia è molto apprezzata e  viene usata anche come ramo principale nei nuovi stili apparsi nel periodo Edo (Shōka e Seika).

 

 

 

Per l’ikebanista è interessante confrontare il disegno a sinistra di un ventaglio di Ogata Korin (1652-1716)  con il disegno “botanico” occidentale a destra.

Nel disegno di Korin la gerarchia delle “forze” è ramo-foglie-fiori ossia c’è un ramo forte, ben visibile, con delle foglie e con  dei fiori (raffigurati solo in parte) ottenendo un ottimo equilibrio fra le forze delle varie componenti contrariamente al disegno realistico occidentale in cui predomina la forza dei fiori, seguita da quella foglie mentre il ramo è sottile, debolissimo.

L’ikebanista Ohara, quando tratta la camelia, deve riferirsi al modo usato da Korin e non a quello naturalistico occidentale.

 

Ecco alcuni esempi di come è utilizzata la camelia

 

altnella Scuola Ohara

 

 

e nella Scuola Sogetsu

 

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