Un celebre detto  zen dice: “se incontri il Buddha per la strada, uccidilo!”

Lo Zen, scaturito dall’incontro fra Buddhismo e Taoismo, non è considerato una religione dalla Chiesa cattolica ed essa permette ai sacerdoti di essere monaci zen.

Lo zen è considerato una via di sviluppo personale, un processo di conoscenza e crescita interiore ed è un metodo pratico, una disciplina del corpo e della mente che richiede sforzo, perseveranza e fede per rendere possibile l’illuminazione che porta il praticante zen all’accettazione attiva della vita quotidiana e al riconoscimento delle sue qualità straordinarie: lo scopo pratico dello zen è il condurre la persona ad un’esperienza diretta della vita, togliendo i condizionamenti delle parole e dei concetti accumulati con gli anni – “con lo studio si aggiunge, con il Tao si toglie”-. Tao e Dō sono due letture On dello stesso kanji.

Secondo lo Zen si raggiunge l’illuminazione tramite la meditazione e la concentrazione sulle più umili azioni quotidiane.

Al suo diffondersi in Giappone, incontrando resistenza e ostilità da parte delle altre sette buddhiste già esistenti, lo Zen pose l’accento sulla fiducia in sé stessi, sull’autodisciplina della mente e incoraggiò i suoi seguaci ad abbandonare tutti i modi convenzionali del Buddhismo, non attribuendo alcun valore alle sacre scritture o all’adorazione delle icone buddhiste.

Non necessitando di istituzioni religiose, sacre scritture, templi e icone usati da tutte le altre correnti buddhiste, considera che ogni attività umana può essere “utilizzata” come sentiero – Via, Dō – verso il risveglio; a maggior ragione ogni forma artistica è ritenuta adatta a questo scopo. Lo Zen influenzò delle arti già esistenti, modificandole perché corrispondessero alle sue esigenze di insegnamento, e nacquero le Arti Tradizionali riconoscibili dal suffisso -dō (via o strada, tanto nel senso letterale quanto in quello di percorso etico-morale), arti che mettono l’accento sulla spontaneità, sulla semplicità e sulla moderazione secondo il concetto: meno è più.

Le più conosciute sono :

arti marziali :

 

 

Kyu-dō (Via dell’arco), Ken-dō (Via della spada), Karate-dō (Via della mano vuota), Iai-dō (Via dell’estrazione della spada)

 

altre Arti :

 

 Cha-dō (Via del Tè), Sho-dō (Via della scrittura), Ko-dō (Via dei profumi), Ka-dō (Via dei fiori = Ikebana)

Lo Zen incontrò i favori del primo shogunato di Kamakura (1185-1333) e divenne la corrente buddhista preferita sotto il secondo shogunato degli Ashikaga (1333-1568), non tanto per il suo aspetto religioso ma per la cultura che esso coltivava.

A partire dal tempo di Sen no Rikyū – al servizio di Hideyoshi quale uno dei suoi cinque Maestri della Cerimonia del Tè e quale curatore dei suoi beni – si sviluppa un uso delle decorazioni con vegetali in funzione dello Zen  (nageire/chabana) e dissociato dalle rigorose tecniche costruttive tramandate dalla Scuola Ikenobō.

L’ikebana, come alcune arti marziali o delle attività quotidiane come il bere del tè, scrivere, costruire giardini, il teatro, la poesia, il riconoscere i profumi, sotto l’influsso dello zen viene “utilizzato” come Via -Dō- per arrivare all’illuminazione.

È nel Periodo Edo che appaiono sia i nomi terminanti in -dō sia le varie scuole che insegnano, ad esempio, lo sho-dō (via della scrittura), il ken-dō (via della spada), il kyu-dō (via dell’arco), il koh-dō (via dei profumi) il cha-dō (cerimonia del tè) e il ka-dō (via dei “fiori”).

In Giappone, fino agli anni 1930-40 (vedi: di Gusty Herrigel, lo Zen e l’arte di disporre i fiori), l’ikebana si imparava ancora da un/a maestro/a nel solco del Ka-dō, mentre era in atto il cambiamento per cui queste scuole élitarie si aprivano a tutta la popolazione e la Scuola Ohara, progressista, organizzava delle lezioni alla radio impartite non solo da insegnanti uomini, come d’abitudine, ma anche da donne .

Per lo zen, seguire la via significa concentrarsi sul processo di produzione e non sul risultato ossia, creando un ikebana, eseguendo i gesti e i kata formalizzati e codificati dalle scuole, bisogna avere in mente i concetti buddhisti prima presentati: la transitorietà, l’interdipendenza, il vuoto che vengono applicati nell’atto del comporre.

Componendo un ikebana, il “togliere il superfluo” dai vegetali insegna a “togliere il superfluo” dalla propria vita, il considerare l’interdipendenza delle misure dei vegetali insegna a capire la nostra dipendenza dal resto del mondo, il creare il vuoto nei rami, fra di essi e attorno all’ikebana aiuta a “fare il vuoto” nella nostra mente così da considerare i pensieri che si affacciano alla mente solo come pensieri e non come realtà.

Fra le Arti Tradizionali citate, alcune “producono” un oggetto; nello sho-dō si produce il foglio con lo scritto e nell’ikebana si produce la composizione “floreale”. Nelle altre arti non si “produce” nessun oggetto (arti marziali, cerimonia del tè, via dei profumi).

Nell’ikebana, la presenza di un’opera  -la composizione “floreale”-  rende più difficile il concentrarsi sul processo di produzione cioè sulla serie di azioni che creano l’opera, poiché l’orgoglio di aver fatto “qualcosa di bello” tende a rinforzare nell’ikebanista il suo Ego mentre la Via ha lo scopo di diminuire l’ipertrofia dell’Ego, tipica della cultura occidentale; dunque il Ka-dō è una Via più difficile da seguire rispetto alle altre poiché produce la composizione-ikebana a cui “ci si può attaccare” o su cui si può concentrarsi (la meta) a discapito del processo di creazione (la Via) : per lo zen –la meta è la via-.

Per il Buddhismo, l’illudersi che vi sia qualcosa di sostanziale e di permanente (la composizione, nel caso specifico dell’ikebanista) crea le premesse perché sorga e si sviluppi ogni sorta di attaccamento: attaccamento all’oggetto, al desiderio di possederlo, al desiderio di utilizzarlo in vista di uno scopo, ma soprattutto attaccamento all’Ego come soggetto del sentire, del possedere, dell’utilizzare. Chi ignora la natura insostanziale e impermanente della realtà finisce inevitabilmente con l’attaccarsi a qualcosa che crede autonomo e permanente: tale attaccamento diventa causa di sofferenza quando quel qualcosa cessa di esistere.