Ikebana, arte tradizionale e percorso etico
di MARIA TERESA GUGLIELMETTI
Nella cultura giapponese, il termine Geijutsu, arte, comprende anche le arti tradizionali Dentōgeinō: la danza, il canto, la musica, il teatro (1), la letteratura, la pittura, la realizzazione di giardini Zen, la ceramica, la calligrafia, l’arte della lacca, l’ikebana e la cerimonia del the. Rientrano pertanto nelle arti tradizionali anche la progettazione dei giardini ed il Chanoyu (2) che, secondo i parametri della cultura occidentale, appartengono ad un ambito diverso da quello dell’arte. In Giappone non si opera neppure una distinzione tra arti maggiori e minori: un dipinto ad inchiostro, una ceramica di pregiata fattura ed un ikebana hanno uguale dignità artistica.
Da queste constatazioni nasce l’interrogativo sul denominatore comune di tutte le arti comprese nel termine Dentōgeinō composto da diversi Kanji (3): den trasmettere, to tutto insieme, nō capacità e gei, lo stesso carattere che ritroviamo in Geijutsu, che rimanda al concetto di arte. Si evidenzia così l’elemento comune alle arti definite tradizionali: la trasmissione tutto insieme ovvero il rispetto, inteso come venerazione ed osservanza degli insegnamenti dei maestri del passato.(4) Questa tradizione, custodita gelosamente e tramandata oralmente per secoli (5), affonda le sue radici nella religiosità giapponese, com’è venuta a formarsi e trasformarsi nel corso del tempo: lo Scintoismo, la religione autoctona incentrata sulla venerazione dei Kami, entità sacre presenti ovunque sia nella natura, sia nelle creazioni dell’uomo, si è intrecciato con il Buddismo, la religione d’origine indiana, giunta in Giappone nel VI° secolo d.C., dopo aver accolto in Cina contributi taoisti e confuciani.(6) Diventa così comprensibile l’inclusione del Chanoyu nelle arti tradizionali: nell’essenzialità raffinata della stanzetta del the si scandiscono con gesti ritualizzati l’unicità e l’irripetibilità di ogni istante vissuto nell’attenzione al qui ed ora, come espresso nelle parole ichigo ichie, alla lettera una vita, una volta, (7) ossia l’incontro con gli altri partecipanti e, ad un livello più sottile, quello con le percezioni sensoriali: visive, uditive, tattili, gustative e olfattive, alle quali fa appello tutto lo svolgimento del Chanoyu, è sempre nuovo di momento in momento.
Una precisazione è d’obbligo: il rapporto arte tradizionale e religione è difficilmente espresso e definito dai giapponesi con la chiarezza e l’oggettività che ricerchiamo in occidente, la componente religiosa si è piuttosto stemperata nell’arte divenendo, nel corso del tempo, soprattutto pratica di vita quotidiana ed artistica. Questa preferenza accordata all’attività concreta rispetto al pensiero concettualmente definibile è da collegare sia allo Scintoismo, che esalta la vitalità dell’uomo, sia al pragmatismo del Buddismo sino-giapponese, che privilegia l’attività meditativa nelle azioni quotidiane, rispetto ad elaborate concezioni dottrinali.
Il lettore occidentale, sia credente sia laico, per non fraintendere queste religioni deve spogliarsi della modalità, spesso inconsapevole, di considerarle secondo parametri culturali di matrice cristiana. Buddismo e Scintoismo, pur nelle differenze, pongono il fulcro della religiosità nella vita, partecipe dell’eterno divenire del ciclo cosmico: nelle azioni della quotidianità si realizzano la pienezza vitale per lo Scinto e, per il Buddismo, la liberazione dalla sofferenza. Nello Scintoismo attraverso le virtù della sincerità e della purezza del cuore-mente “kokoro”(8) nei comportamenti, tesi a realizzare e conservare una profonda armonia non solo con gli altri, ma anche con la natura ed il cosmo. Nel Buddismo con lo strumento della meditazione che conduce al distacco dall’ego ed alla liberazione dagli attaccamenti attraverso l’osservazione, priva di scelte, giudizi e pregiudizi, della realtà esterna ed interiore, tutta degna del fuoco dell’attenzione.
Alla visione della vita umana come un elemento tra tutti gli altri del micro e macrocosmo corrisponde un profondo legame con la natura, che si è espresso per quasi due millenni nella sintonia del popolo giapponese con le variazioni stagionali e nell’accettazione di tutte le manifestazioni naturali, anche le più drammatiche e distruttive. Prima dell’apertura dei confini nel periodo Meiji, non esisteva nella cultura giapponese il termine natura inteso come mondo materiale esterno all’uomo: “[…] come sostituti del concetto astratto di natura, erano impiegati termini concreti come ten, chi, san, sen (cielo, terra, montagna, fiume) oppure san, ka, sō, boku (montagna, fiore, erba, albero).” (9) L’uomo era una delle manifestazioni della natura al punto tale da non potersi pensare distaccato da essa.
Nella definizione san, ka, sō, boku compaiono tre elementi fondamentali delle composizioni d’ikebana: rami di albero, erbe e fiori. Si evidenzia così come l’origine e lo sviluppo di quest’arte siano legati intimamente ad un pensiero etico religioso in cui l’io trova la completezza di se stesso nel rapporto armonioso e di profonda sintonia con le manifestazioni del micro e macrocosmo. Significativa a questo riguardo la testimonianza del valente maestro Itō Takumi della scuola Ohara (10) che, parlando dell’ikebana ispiratogli dalla natura di Oirase, (fotografia n° 1) afferma: “Con questa composizione ho provato a realizzare la bellezza di Oirase. Se vi andate vi sentite un oggetto della natura. Immerso nella natura non ho vita autonoma, essa mi fa vivere, io sono una parte di questa natura.” (11)
Fotografia n° 1: Ammirare l’ombra del verde nella bellezza di Oirase
Se lo studio dell’ikebana comporta la comprensione delle trasformazioni della natura legate al trascorrere ciclico del tempo, la maturità nella pratica di quest’arte riflette anche la consonanza con le varie parti del giorno e con le manifestazione meteorologiche: il vento, la neve, l’umidità nella stagione delle piogge etc. come nelle composizioni del maestro Itō che riflettono la freschezza della natura di inizio estate, I fiori nell’acqua, un paesaggio al tramonto, (fotografia n°2) e Su una distesa di felci passa il vento (fotografia n° 3).
Fotografia n° 2 I fiori nell’acqua
Si giunge così a pulsare all’unisono con le diverse espressioni dellavegetazione naturale sia di grande respiro come boschi, vallate, montagne, sia di piccole dimensioni, ma per questo non meno commoventi nella loro delicatezza e perfezione, come erbe, fiori e cespugli del ciglio di una strada di campagna. Solo il raggiungimento di quest’armonia, che è comprensione ed approfondimento delle caratteristiche dei vegetali, consente di inserirli nella composizione rispettando la loro natura più intima e quindi anche la loro vitalità. Si realizza così appieno il significato del termine ikebana di dare nuova vita ai fiori.
L’immedesimazione con gli elementi vegetali genera di per sè quell’etica di rispetto della natura dalla quale è nata quest’arte e che si manifesta sia nel non rovinare la forma di alberi e cespugli cogliendo con avidità più di quanto strettamente indispensabile per la composizione, sia nel non danneggiare irreparabilmente l’ambiente naturale, anche senza giungere a compiere veri e propri delitti, (12) ma solo conducendo uno stile di vita del quale non si considerano le conseguenze.
All’immersione empatica nella natura, come quella dei pittori cinesi e giapponesi che nell’antichità osservavano il soggetto da dipingere fino a diventare tutt’uno con esso, conduce anche la meditazione buddista, mentre il concetto buddista dell’impermanenza trova un chiaro riscontro nella consonanza con la natura e le sue continue variazioni, presente nello Shintoismo. Questi esempi evidenziano come sia impossibile separare sempre nettamente i contributi delle due religioni.
Fotografia n° 3 Su una distesa di felci passa il vento
L’uso del suffisso Dō (via) nella designazione dell’ikebana Kadō, Via dei fiori (13) e di altre arti Chadō, via del thè, Shodō, via della calligrafia, Sōdō, via dell’incenso indica un legame molto stretto con il Buddismo, in particolare con lo Zen e le sue componenti taoiste e confuciane. Dō deriva da Dao la forza unificatrice che pervade il cosmo intero ed è al centro della religione taoista come evidenziato dal kanji Dō così intimamente legato al pensiero filosofico ed alla religiosità cinese, che “[…] possiamo distinguere una lettura confuciana secondo cui la Via è la conformità alle regole, l’adempimento degli opportuni riti sociali, e una lettura taoista, secondo la quale la Via è la ricerca dell’unione con il principio stesso del movimento universale […] le due linee di pensiero in realtà s’intrecciano […] (14).
Come dimostrato da Giangiorgio Pasqualotto (15) e dal maestro della scuola Ohara Mauro Graf (16) le regole, che applichiamo oggi nell’ikebana, sono di origine religiosa. La loro assimilazione è tuttavia insufficiente: se si vuole realizzare lo spirito profondo di un’arte tradizionale sono indispensabili l’apporto della creatività coniugata alla consapevolezza meditativa, la cui forza non si esaurisce in una crescita etica, ma conduce, in modo del tutto indipendente da qualsiasi forma di volontà, ad un’unione cosmica. (17)
Nel Buddismo, ed in particolare nello Zen, l’essere umano è il protagonista di un percorso etico che può essere realizzato in tutte le espressioni della sua personalità, come ha ben sintetizzato il monaco zen e maestro del giardino Masuno Shunmyō con l’affermazione “Qualsiasi luogo è Dōjō”(18): la meditazione non è soltanto una pratica formale riservata alla sala di meditazione dei monasteri e dei ritiri per laici o alla solitudine della propria casa, ma può e deve investire tutti gli aspetti della vita. La realizzazione di un ikebana diventa così un momento privilegiato per praticare; l’impegno in un’attività rilassante e gioiosa avviene, anche se in modo più limitato nel tempo e meno radicale, nelle medesime condizioni ambientali dei ritiri di meditazione: l’isolamento in uno spazio protetto e lontano dagli affanni della vita quotidiana. Si creano così le condizioni ideali per giungere a quel livello di consapevolezza che è di per sé fonte di crescita morale. L’osservazione del movimento della nostra mente con i pensieri, i ricordi, e le immagini che si susseguono, sorgono e svaniscono, in modo estremamente rapido e senza interruzione, ci fa entrare in contatto con la condizione dell’Io caratterizzata dalla relatività e dall’imperfezione; comincia a crollare il concetto di Io come un’entità che richiede continuamente la propria affermazione. Gli spazi in noi, saturati fino ad allora da pensieri e comportamenti, tesi alla continua salvaguardia di un Io irrigidito come un blocco di ghiaccio, (19) si liberano ed inizia ad emergere la natura vera dell’uomo, caratterizzata dalla bontà e dalla positività. Si attua quanto espresso dalla metafora del Buddismo Zen: nel cuore di ognuno c’è un diamante che deve solo essere ripulito affinché brilli in tutto il suo splendore. Queste potenzialità si realizzano ed esprimono nella gioia di vivere, nella serenità, nel distacco da se stessi e nella compassione che lenisce la sofferenza provocata dalle ferite della mente giudicante e dall’ineluttabilità della malattia e della morte.
Ognuno di noi con i suoi rapporti costituisce la società e ne determina le caratteristiche; la pratica dell’ikebana come Kadō assume così implicazioni che vanno ben oltre la trasformazione del singolo.
Il distacco da se stessi conduce alla modestia ed all’umiltà, qualità fondanti delle arti tradizionali giapponesi. Nella cultura attuale dei paesi occidentali, caratterizzata dalla massima espressione dell’individualismo, la modestia non è più una virtù. Il termine modesto ha perso le valenze positive e viene interpretato per lo più come sinonimo di mediocre e povero, eppure i comportamenti animati dalla modestia e dall’umiltà trasmettono, in tutti gli ambiti nei quali un individuo agisce, positività, serenità e fiducia nella vita. I rapporti con gli altri sono improntati al rispetto ed alla discrezione; la flessibilità sostituisce la durezza dell’attaccamento alle proprie opinioni, la benevolenza subentra alla lotta per la continua affermazione di se stessi a scapito della collettività.
Con la pratica del Kadō l’arte dell’ikebana diventa la fucina di un’arte di vivere che poggia su virtù morali indispensabili per l’equilibrio e la serenità dell’individuo e per trasformare la collettività in una fonte di forza e di aiuto per tutti.
Note
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Il teatro Kabuki e i tre generi del teatro classico giapponese: Nō, Ningyō-jōruri, teatro delle bambole, chiamato anche Bunraku, teatro dei burattini, e Kyogen, breve azione scenica di carattere farsesco.
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Cha no yu significa letteralmente Acqua calda per il the. La traduzione nelle principali lingue europee come Cerimonia del the (Ingl. Tea Ceremony, franc. Cérémonie du thé, ted. Teezeremonie) ha una sua giustificazione, sia perché rivolta a tutti, anche a coloro che non sanno quasi nulla della cultura giapponese e dello zen, sia perché nella stanzetta del the si svolge tutta una serie di atti rituali.
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Caratteri ideografici cinesi utilizzati nella lingua Giapponese, per ognuno dei quali sono possibili due letture una giapponese chiamata Kun e una cinese On.
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Non sono state elencate volutamente le arti marziali tradizionali Dentō bujutsu, perché non rientrano nelle arti del Dentōgeinō e, pur avendo in comune la trasmissione tutto insieme, richiedono una trattazione che esula in gran parte dai temi del presente articolo.
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Solo dopo l’apertura dei confini del Giappone gli insegnamenti di alcune arti iniziano ad essere accessibili a tutti grazie alle prime pubblicazioni. Herrigel, Gusty, Lo Zen e l’arte di disporre i fiori, SE Studio Editoriale, Milano, 1986, pagg. 42-45.
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I rapporti tra Buddismo e Scintoismo sono complessi: per alcuni aspetti sono avvenute sovrapposizioni e fusioni di tipo sincretico, tuttavia le due religioni restano distinte e praticate per lo più parallelamente con preti scintoisti, che officiano riti di passaggio dalla nascita all’età adulta, riti di purificazione e matrimoni, e monaci buddisti, che celebrano i funerali: “Secondo le statistiche dell’Agenzia [giapponese] per la Cultura, nel 1997 il Giappone contava 95.117.730 buddisti e 104.533.179 scintoisti su solo 127 milioni di abitanti” Bouisson, Jean-Marie, Storia del Giappone contemporaneo, Società editrice il Mulino, Bologna, 2003.
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Queste parole che incarnano lo spirito della Cerimonia del the sono attribuite a Yamanoue Sōji, allievo di Sen no Rikyu (1522-1591)
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Il concetto olistico di cuore-mente kokoro è presente anche nel Buddismo
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AAVV, Raku: una dinastia di ceramisti giapponesi, Torino, Allemandi, 1997. Erano utilizzati per definire la natura anche san, sen, sō, boku ovvero una combinazione dei termini delle due definizioni citate nel testo. Cfr. nota 18.
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Una delle tre maggiori scuole di ikebana sorta alla fine del XIX° secolo ad opera di Unshin Ohara.
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Soka, Ammirare l’ombra del verde, giugno 2012, pagg. 9 – 13. Oirase è un famoso parco nazionale nella regione di Aomori ed è rinomato sia per la bellezza della sua natura, sia perché frequentato dal poeta Basho (1644-94).
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Purtroppo quest’etica che ha fatto parte del patrimonio religioso e culturale dell’intero popolo giapponese fino a tutto il periodo Edo, con l’industrializzazione è stata abbandonata dai detentori del potere politico ed economico fino ad arrivare al recente disastro di Fukushima, l’ultimo e più grave di una serie di drammi ambientali come quelli di Minamata, i cui inizi risalgono al 1908, del fiume Agana, di Yokkaichi e di Toyama, per citare solo i casi più clamorosi.
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Un ikebana può essere realizzato con fiori, foglie, rami ed erbe. Il termine ikebana può designare anche una composizione di sole foglie, di soli rami o di sole erbe, quindi la parola Hana, abbinata a Ike indica qualsiasi tipo di vegetale, Ka è la lettura On del termine Hana. Mantengo tuttavia la traduzione del termine “Kadō” con “Via dei fiori” perchè è consolidata sia dall’uso, sia dal signficato fiore, nel linguaggio comune, della parola Hana/ka.
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Nagayama, Norio, Shodō.Lo stile libero, Casadei Libri Editore, Padova, 2005
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Pasqualotto, Giangiorgio, Estetica del vuoto, Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Venezia, Marsilio Editori, 2004
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Graf, Mauro sito www.maurokorangraf.ch
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Cito alcuni esempi della formazione nella meditazione di maestri giapponesi di arti tradizionali. Raku Kichizaemon XV, op. cit. alla nota 9, ha scritto una pagina fuori testo, inserita tra le fotografie delle tazze Raku, dalla quale emerge il rapporto intimo tra la meditazione e la sua creazione artistica, senza che l’autore usi mai il termine meditazione. Già all’inizio poche righe conducono il lettore nel cuore di uno stadio molto avanzato di meditazione personale. Il maestro del the della scuola Urasenke, Sen Soshitsu, XV, Chadō, Lo zen nell’arte del the, Promolibri, Torino, 1986 e la maestra d’ikebana delle scuole Ikenobo e Koryu, Ando Mei Keiko, Ikebana, Arte Zen, 2009, opera stampata in proprio, parlano della loro formazione nella meditazione Zen in un monastero.
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Dō (Via) jō (luogo), luogo per apprendere la Via. Con questo termine si designa solitamente la sala di meditazione nei monasteri.
Masui Sachimine, Testini Beatrice, San Sen Sou Moku, , Padova, Casadei, 2007
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19. E’ un’immagine del Buddismo tibetano: la mente-cuore non lavorata dalla consapevolezza meditativa è rigida come un blocco di ghiaccio, che si scioglie grazie al fuoco dell’attenzione e assume le caratteristiche di adattabilità, fluidità e morbidezza dell’acqua.
Nell’articolo e nelle note i nomi giapponesi sono citati con il cognome che precede il nome.
Un ringraziamento alla mia amica Matsumoto Jun per le traduzioni e le preziose informazioni sui termini giapponesi.
Copyright: 2013 Maria Teresa Guglielmetti
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