Sfortunatamente le illustrazioni di questo articolo sono andate perse durante la migrazione del sito. Sarei molto riconoscente all’autrice se potesse inviarmele all’indirizzo influpi(@)bluewin.ch. Grazie
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articolo scritto da Nicoletta Fumagalli, scuola Ohara, Milano
1 La simbolizzazione delle stagioni
In Giappone le quattro stagioni sono chiaramente distinte: a una breve primavera seguono la lunga estate, pre-monsonica e monsonica, l’autunno con i suoi colori e l’inverno nevoso.
La coscienza del trascorrere del tempo e una delicata sensibilità per gli aspetti caratteristici di ogni stagione diedero origine fin dai tempi antichi a una tradizione che collega un insieme particolare di sentimenti poetici a ogni epoca dell’anno.
A partire dal periodo Heian (794-1185), una varietà di oggetti naturali fu associata in poesia a una specifica stagione; si riteneva infatti preferibile esprimere emozioni e pensieri in modo indiretto, elegante, educato, e questo si poteva fare attraverso uno scenario naturale.
Nella cultura aristocratica giapponese, la rappresentazione della natura è raramente solo decorativa o mimetica. È invece quasi sempre codificata simbolicamente: la descrizione di una pianta, di un fiore, un animale o un paesaggio diventa la descrizione implicita di uno stato d’animo umano: la natura è allora la chiave per esprimere emozioni e pensieri. Ecco perché le stagioni divennero tanto importanti: l’espressione dell’intimità attraverso un elemento naturale, il rimando dal mondo esterno a quello interno è un criterio essenziale per comprendere la letteratura e le arti visive giapponesi.
Gran parte della poesia giapponese divenne quindi poesia delle stagioni. Ogni argomento stagionale generò a sua volta un gruppo di associazioni, che entrò a far parte di un vocabolario culturale proprio non solo della poesia, ma anche di un’ampia varietà di arti, come la pittura di paraventi (byōbu-e) e rotoli (emaki), la composizione floreale, il teatro nō, la cucina e l’abbigliamento.
Di fondamentale importanza in questo processo fu il waka, la poesia classica giapponese di trentuno sillabe, composta dalla nobiltà e dai personaggi della corte: esso assegnò agli elementi naturali tutta una gamma di caratteristiche stagionali, che dovevano essere lette in riferimento alla vita degli esseri umani. Un certo numero di queste associazioni era originale, ma molte, come quella fra la rugiada d’autunno e le lacrime, derivavano dalla poesia cinese della stessa epoca. La stagione, insieme con l’amore, divenne il tema caratteristico della poesia e della pittura, in particolare di quei dipinti chiamati yamato-e, nello stile tradizionale giapponese, e poi nello stile Rimpa successivo.
In questa poesia classica, l’accento era posto non su come la natura è realmente, ma su come questa dovrebbe essere; nel waka, dovrebbe essere elegante e aggraziata, come vediamo anche nel paravento seguente.
La composizione su fondo oro mostra al centro un pino su cui s’arrampica un glicine; il torrente bianco di spuma che si vede scorrere fra le nuvole dorate rinfresca la scena. Da destra a sinistra (il verso in cui vanno lette le pitture giapponesi), piante e uccelli di fine primavera e poi d’inizio autunno: si inizia con la kerria e si termina con una camelia sasanqua che collega questo paravento a quello delle altre due stagioni. Kanō Eino (1631-1697), figlio di Kanō Sansetsu, ripete i motivi caratteristici della famosa scuola Kanō, di cui è un tardo rappresentante.
La tradizione giapponese di considerare la natura in modo armonioso è vista dagli studiosi nostri contemporanei come una costruzione della cultura originata già nell’ottavo secolo nella capitale del Paese. Il waka è infatti un genere poetico urbano, nato nelle città e destinato alla comunicazione all’interno di un’élite colta. I paraventi dipinti, le stampe, i kimono a dodici strati indossati dalle dame dell’aristocrazia, i giardini, e poi a partire dal medioevo il bonsai, le composizioni floreali, l’individuazione di “luoghi famosi” legati a particolari stagioni, il teatro e la cerimonia del tè: insieme con la poesia erano tutti modi raffinati di surrogare la natura reale per gli abitanti della capitale Heian (l’odierna Kyoto), che raramente avevano occasione di frequentare direttamente gli ambienti esterni alla città. Nelle loro abitazioni, essi erano comunque circondati da paesaggi dipinti, da allusioni poetiche, da un elaborato sistema di rimandi alla natura.
Nelle 21 antologie poetiche imperiali, dal Kokinshū (ca. 905 d.C.) allo Shinshokukokin Wakashū (ca 1439 d.C), tali rimandi furono canonizzati e fissati, in modo da costituire un codice comprensibile al fruitore educato. Questo linguaggio si componeva di alberi e fiori, di cui si poneva in evidenza il colore e il profumo; di uccelli e insetti, evocati per la loro voce, mentre l’unico animale a quattro zampe era il cervo; di fenomeni atmosferici come le nebbie, gli acquazzoni primaverili etc.; e di elementi collegati alla cosmologia shintoista come le montagne, i fiumi o la luna.
Ogni stagione non era poi considerata compatta, ma se ne distinguevano tre fasi, e si poneva di preferenza l’accento sulla prima e sull’ultima fase. All’interno di ogni stagione gli elementi naturali erano disposti in una progressione rigida (ad es., i fiori di pruno venivano sempre prima di quelli di ciliegio, e questi prima della kerria), in modo da poter dire a prima vista di quale fase della stagione si trattava. Anche le associazioni con i sentimenti erano fisse (ad es. cervo = solitudine), di modo che il paesaggio e le emozioni si fondevano (vedere un cervo dipinto o sentirlo nominare in poesia portava l’immediata connessione con la solitudine, come quella del cervo maschio che cerca la compagna). Fisse erano anche le combinazioni, generalmente tra un fiore e un uccello. Infine, come ho detto sopra, la poesia waka poneva l’accento sull’eleganza e sull’armonia: la natura non era mai rappresentata nel suo aspetto pericoloso. Mai un terremoto, un’inondazione, un aspetto selvaggio o temibile.
Fu il grande poeta Fujiwara no Teika (1162-1241) che canonizzò stabilmente queste associazioni, addirittura mese per mese. Il suo lavoro divenne la base per gran parte della pittura successiva nel periodo Edo.
Kenzan raffigura una poesia di Teika, con le associazioni che essa prescrive per il primo mese d’estate:“Le vesti di tela bianca/ dovrebbero esser messe all’aria, dicono,/proprio quando arriva l’estate/e i fiori di deutzia in boccio/fanno incurvare la siepe. // Nel villaggio di Shinobu/dove vive il cuculo,/il suo grido ora si sente,/mentre aspettiamo il prossimo mese/quando fiorisce la deutzia”.
Ogata Kenzan, che era prevalentemente un ceramista, produsse anche dodici piatti quadrati decorati e illustrati con le poesie di Teika.
1 Ecco le associazioni di Teika fra mesi, piante, animali – questi ultimi quasi tutti uccelli acquatici:
Primo mese salice usignolo giapponese
Secondo mese fiori di ciliegio fagiano
Terzo mese glicine allodola
Quarto mese deutzia piccolo cuculo
Quinto mese mandarino gallinella di palude
Sesto mese garofano selvatico cormorano
Settimo mese patrinia gazza
Ottavo mese lespedeza la prima oca selvatica
Nono mese miscanthus quaglia
Decimo mese crisantemo tardivo gru
Undicesimo mese nespola piviere
Dodicesimo mese primi fiori di pruno uccelli acquatici
Vediamo allora in concreto le tematiche associate ad ogni stagione. Notiamo che le stagioni giapponesi non corrispondono esattamente a quelle del nostro calendario.
Primavera (nel calendario giapponese, dal Primo al Terzo mese, 4 febbraio – 4 maggio)
Fin dal periodo Heian, quattro temi marcano il distacco dall’inverno e l’arrivo della primavera:
la neve, la nebbia primaverile, il ghiaccio che si scioglie e l’usignolo dei cespugli giapponese (uguisu), un uccellino simile a un passero con il ventre bianco e le penne di un colore uguisu (un misto di verde,
marrone e nero), che in primavera arrivava in città dalle colline e dalle valli circostanti, dove si pensava che passasse l’inverno.
“Senza la voce dell’usignolo che viene dalla valle, come sapremmo che arriva la primavera?” Kokinshū, – antologia imperiale di poesie waka, (ca. 920 d.C.) – Primavera 1, n. 14.
L’arrivo della primavera è seguito dalle prime gemme del salice verde, dal ritorno a Nord dell’oca selvatica e dal profumo dei fiori di pruno. Questi ultimi, generalmente rappresentati come fiori bianchi con
cinque petali arrotondati, erano apprezzati perché sapevano resistere al freddo, e nella poesia di primavera sono associati alla neve, come in questo esempio, una poesia di Otomo no Tabito composta durante un
banchetto nella sua residenza:
“I fiori del pruno si spargono nel mio giardino – una nevicata dai cieli!” Man’yoshu, (dopo il 759 d.C.), 5: 822 .
Le gemme del salice simboleggiano la primavera, la nuova vita e la nascita di un nuovo amore:
“È forse il colore del vento che viene con la primavera – i rami verdi del salice si tingono di verde sempre più ogni giorno che passa” Shigi no hanegaki, (Beccaccino che si liscia le penne, antologia waka) 1691 .
I ciliegi, nei giardini e in tutta la città, diventano un simbolo della bellezza della capitale, come in questa poesia del prete Sosei:
“(Composta guardando la capitale mentre i fiori di ciliegio erano al loro culmine) Quando guardo lontano, il salice e i fiori di ciliegio si fondono, rendendo la capitale un broccato di primavera” (Kokinshu,
Primavera 1, n. 56).
I fiori di ciliegio appaiono fra una dorata nebbia primaverile, in contrasto con la terra scura e spoglia, le costruzioni cupe e altri alberi ancora nudi. Kanō Sanraku lavorò per Toyotomi Hideyoshi, il famoso daimyo, negli anni attorno al 1570. Studiò sotto Kanō Eitoku, divenne suo genero e fu adottato assumendone il cognome. Più tardi divenne il leader della scuola Kanō.
Ma presto, l’aspetto più interessante della fioritura del ciliegio divenne il momento in cui i fiori appassiscono e si spargono al suolo, come nella famosa poesia di Ono no Komachi:
“Mentre guardo fuori durante le lunghe piogge, il colore dei fiori di ciliegio sbiadisce, proprio come la mia vita, che passa invano” (Kokinshu, Primavera 2, n. 113).
Il desiderio umano si rivolge a qualcosa che vogliamo raggiungere o anche a qualcosa che abbiamo perduto. In Giapponese, entrambi questi aspetti si esprimono con il verbo shinobu, che può significare
“soffocare il desiderio” oppure “guardare al passato con rimpianto”; questo è un tema ricorrente nella primavera. Allo stesso modo, le poesie sui fiori di ciliegio riguardano non tanto il culmine della fioritura,
quanto l’attesa dei fiori e poi il rimpianto al loro appassire. È questo sentimento quindi che si riflette nei paraventi dipinti.
I fiori associati alla fase più tarda della primavera sono il glicine e la kerria; il momento topico del giorno in questa stagione è l’alba.
Estate (nel calendario giapponese, dal Quarto al Sesto mese, 5 maggio – 6 agosto)
Un altro uccellino, che arrivava nel quarto mese, segnava l’estate: il piccolo cuculo (hototogisu). Il suo richiamo era associato con la nostalgia e i ricordi personali, così come il fiore del mandarino, o meglio il suo profumo.
“Quando avverto il profumo dei fiori di mandarino aspettando il Quinto Mese, mi sovviene la manica di una certa persona tanto tempo fa” (Kokinshu, Estate, n. 139).
Le piogge lunghe e opprimenti del Quinto Mese, la stagione dei monsoni, divennero un argomento importante nel periodo Heian, quando furono associate alla malinconia. L’associazione fra gli omofoni
samidare (pioggia estiva) e midare (turbato) collegarono le piogge estive alla depressione. Amore, ricordi, morale basso sono quindi la combinazione evocata dal piccolo cuculo e dai fiori di mandarino.
La calura estiva era troppo insopportabile per essere menzionata in poesia; si preferì invece dare immagini di fresco, o anche richiamare il refrigerio della sera e la sua brevità.
“Attingendo l’acqua del pozzo all’ombra dei pini, penso a un anno senza estate” Shuishū, (terza antologia imperiale, 1005 d.C.) Estate, n. 131 .
In estate fioriva il kakitsubata, una specie di iris spesso citata nelle poesie d’amore, forse perché nella sua forma e nel colore c’è qualcosa che ricorda la bellezza femminile. Il calamo aromatico, erba di buon
augurio, era associato a questa stagione come la peonia, la deutzia e il giglio. L’estate muore fra lo stridio triste delle cicale.
Momento topico della stagione, la notte: sempre troppo breve per trovarvi refrigerio.
A sinistra la primavera, al centro le peonie dell’estate. Esse sono totalmente fuori scala rispetto al pino, con l’effetto di trionfare sul fondo oro. Ospitano il piccolo cuculo, uccellino associato con la prima fase della stagione.
Autunno
Nel calendario giapponese, l’autunno si estendeva dal Settimo al Nono mese (circa dal 7 agosto al 6 novembre); la calura estiva rimaneva così dominante in tutta la prima metà di questa stagione. Come sempre, in Giappone la natura viene osservata nei minimi dettagli, e quindi la transizione graduale da una stagione all’altra è attesa e spiata in ogni suo segno. il cambiamento di stagione dall’estate all’autunno è avvertito prima di tutto nel vento:
“Anche se non è chiaro all’occhio che l’autunno è arrivato, mi trovo sorpreso dal suono del vento” (Kokinshu, Autunno 1, n. 169).
Il pieno autunno tuttavia è legato alla luce della luna nel cielo notturno, che sollecita pensieri malinconici. Il Professor Haruo Shirane1 scrive in proposito nel suo libro Il Giappone e la cultura delle quattro stagioni: “Sebbene la luna appaia in tutte e quattro le stagioni, l’associazione della luna con l’autunno nelle antologie imperiali di poesia waka fu tanto forte, che alla fine la luna arrivò a simboleggiare l’autunno stesso.” Lo vediamo in questa poesia:
“Quando vedo la luce della luna filtrare attraverso gli alberi, so che l’autunno struggente è arrivato” (Kokinshu, Autunno 1, n. 184).
La parola giapponese “autunno” (aki) è omofona della parola che significa “brillante”, e nei tempi antichi si pensava all’autunno come alla stagione in cui le foglie si tingevano di colori brillanti e in cui si raccoglievano i “cinque cereali” (riso, grano, miglio, sorgo e fagioli). L’autunno era dunque perfino superiore alla primavera, per lo smalto dei colori, paragonati a un meraviglioso tessuto.
“In primavera, vedo un’erba, che è verde; in autunno, ci sono fiori di innumerevoli colori” (Kokinshū, Autunno 1, n. 245).
Fu l’influenza cinese che, a partire dal nono secolo, determinò la conversione dell’autunno in una stagione di tristezza, anche di declino dell’amore. Si accostò dunque all’autunno (aki) un altro omofono, che significa “tristezza”. Perfino i colori sgargianti divennero simbolo di caducità e malinconia, in una estetica che superava le apparenze e chiedeva maggiore profondità spirituale.
“In ogni cosa l’autunno è triste – quando penso a ciò che accade quando le foglie degli alberi cambiano colore e svaniscono” (Kokinshū, Autunno 1, n. 187).
Momento topico di questa stagione divenne la sera.
Fin dal Man’yoshū troviamo associate all’autunno le “Sette erbe”, elencate come segue: lespedeza, miscanthus con spighe, pueraria, garofano, patrinia, eupatorium e ipomoea. In seguito, dal periodo Heian, il crisantemo diventò il fiore principale nella poesia dell’autunno. In Cina, questo fiore elegante era simbolo di lunga vita e di alto stato sociale; in Giappone, costituì lo stemma imperiale.
In questo dipinto che mostra fiori di crisantemo con spighe, Ogata Kōrin utilizza differenti tecniche pittoriche. Le spighe sono rese con pittura oro su uno strato di gofun (gusci di conchiglie macinati); i crisantemi sono rappresentati in diversi stadi di fioritura, più chiusi in basso e sempre più grandi a mano a mano che si sale. Nella pittura Rimpa, gli artisti fanno molta attenzione al ritmo degli elementi; qui, anche lo spazio vuoto è stato accuratamente considerato. Se dividiamo il paravento con una diagonale che congiunge l’angolo in basso a destra con quello in alto a sinistra, vediamo che la parte sinistra resta quasi completamente vuota, mentre i crisantemi e le erbe si concentrano sulla destra. Il fondo oro da solo diviene una componente decorativa importante, tutta luce, ripresa nella venatura dorata delle foglie dei crisantemi.
Un aspetto notevole di questo paravento è il lato posteriore: su un fondo di foglia argento è dipinto un acero nella sua veste rossa autunnale, nella metà opposta a quella occupata dai crisantemi sulla fronte. Il contrasto tra le due facce – oro e argento – è marcato. Kōrin sembra dare le due versioni dell’autunno, quella luminosa e quella più malinconica.
Inverno (nel calendario giapponese, dal Decimo al Dodicesimo mese, 7 novembre – 3 febbraio)
Il gelo e la neve dell’inverno portavano da un lato a rimpiangere la stagione passata e dall’altro ad attendere con impazienza l’arrivo della stagione nuova.
Una famosa poesia di Ki no Tsurayuki canta la bellezza della neve, in quanto assomiglia ai fiori di ciliegio:
“Quando cade la neve, fiori ignoti alla primavera spuntano sull’erba e gli alberi che hanno dormito tutto l’inverno” (Kokinshū, Inverno, n. 323).
I poeti medievali inclusero nell’ambito dei temi collegati all’inverno gli uccelli acquatici, specialmente l’anatra selvatica e l’anatra mandarina, come in
questo waka di Murasaki Shikibu:
“Possiamo considerare gli uccelli sulla superficie dell’acqua come separati da noi? Anch’io fluttuo insicura, e conduco un’esistenza dolorosa” (Senzaishū,
Inverno, n. 430).
Vedremo in seguito che nei paraventi dipinti la presenza degli uccelli accanto a quella dei fiori è un classico della rappresentazione delle stagioni.
La neve, il ghiaccio, il gelo e la luna quasi trasparente diedero origine a una nuova estetica di fredda purezza e costruirono un paesaggio monocromatico
molto affine alla pittura a inchiostro, di origine cinese, del periodo Muromachi.
I poeti medievali inclusero nell’ambito dei temi collegati all’inverno gli uccelli acquatici, specialmente l’anatra selvatica e l’anatra mandarina, come in
questo waka di Murasaki Shikibu:
“Possiamo considerare gli uccelli sulla superficie dell’acqua come separati da noi? Anch’io fluttuo insicura, e conduco un’esistenza dolorosa” (Senzaishū,
Inverno, n. 430).
Vedremo in seguito che nei paraventi dipinti la presenza degli uccelli accanto a quella dei fiori è un classico della rappresentazione delle stagioni.
La neve, il ghiaccio, il gelo e la luna quasi trasparente diedero origine a una nuova estetica di fredda purezza e costruirono un paesaggio monocromatico
molto affine alla pittura a inchiostro, di origine cinese, del periodo Muromachi.
Gli uccelli acquatici dell’autunno volano verso l’inverno in questo paravento, dove un grande pruno contorto fiorisce tuttavia. Anche se il dipinto non è propriamente monocromatico, l’uso del colore è ridotto ed essenziale.
Momento topico di questa stagione fu considerato il mattino.
2 Un linguaggio codificato e un indice dei sentimenti
Nel dodicesimo secolo, il poeta Fujiwara no Shunzei (1114–1204) scriveva:
“Come si afferma nella prefazione del Kokinshū, la poesia giapponese prende il cuore umano per seme e lo fa crescere in innumerevoli foglie di parole. Così, senza la poesia giapponese, anche se qualcuno cercasse i fiori di ciliegio in primavera o guardasse il fogliame splendente dell’autunno, non ci sarebbe nessuno in grado di riconoscerne il colore o il profumo.
… Mentre i mesi passano e le stagioni cambiano, e man mano che i fiori di ciliegio lasciano il campo alle foglie splendenti dell’autunno, ci ricordiamo le parole e le immagini delle poesie e ci sentiamo in grado di percepire la qualità di quelle poesie.”
Qui non c’è dunque solo il concetto secondo cui la natura ci aiuta ad articolare ed esprimere pensieri e sentimenti: siamo assai oltre. Shunzei asserisce che la conoscenza della poesia che parla della natura è necessaria agli uomini per vedere e riconoscere la natura nelle sue qualità, perfino quelle che dovrebbero parlare immediatamente ai nostri sensi, come il colore o il profumo. In questa visione, la poesia ci coltiva, dandoci un cuore più sensibile al mondo esterno.
Dunque, l’esplorazione dei sentimenti umani che è propria della poesia trova ispirazione in natura e attribuisce agli elementi naturali ogni finezza del sentire.
Ma in base a quale caratteristica una pianta o un animale arrivano a incarnare uno stato emotivo interiore umano?
Gli uccelli, gli insetti e il cervo che sono citati nelle poesie waka sono apprezzati per certe associazioni lessicali come il matsumushi, il grillo del pino, il cui nome in giapponese significa “insetto che aspetta”; oppure per le loro voci. In relazione a questi animali, si usa spesso il verbo naku, che significa “piangere”, verbo che esprime una serie di sentimenti umani come la tristezza, il rimpianto ecc.
Anche alle piante si assegna la capacità di sentire. Ad esempio, il pruno è ammirato per il suo coraggio nel fiorire in inverno, per la costanza e la resistenza ai rigori del clima.
Potremmo anche chiederci quale sia il modo in cui queste associazioni fra elementi naturali e sentimenti umani si creano e si diffondono. Parzialmente, ho risposto sopra con gli esempi tratti dalla poesia; ma c’è anche un altro modo, che coinvolge le arti visive, di cui Haruo Shirane (op. cit.) porta un esempio.
Nei “Rotoli della storia di Genji”, che datano dal sec. XII, nel capitolo Minori, “I riti”, vediamo il principe Genji con la sua amata, Murasaki, che sta morendo. La scena si svolge in un interno, ma il pittore ci mostra anche l’esterno, con erbe autunnali incurvate dal vento e dalla pioggia.
Genji piange la sua innamorata, scrivendo questa poesia sulla lespedeza:
“Così poco riposa la rugiada sulla lespedeza/ora già si disperde nel vento”.
La lespedeza è una delle erbe che appaiono nella scena; esse sono importanti, poiché occupano circa un terzo del dipinto, e indicano il dolore che Genji sta patendo nell’intimo. Nella pittura dei periodi successivi, basterà rappresentare erbe autunnali incurvate per evocare il dolore del distacco.
Figlio del signore feudale (daimyo) della regione di Himeji, Hoitsu fu educato alla poesia e alla calligrafia fin da giovane. Dopo i vent’anni s’immerse nella cultura popolare e all’età di 37 anni si fece prete. Attorno a questa data si interessò particolarmente alla pittura Rimpa e la riprese in una versione sofisticata. Qui vediamo le erbe dell’autunno scosse dal vento, che porta via con sé le foglie e frusta le spighe di suzuki finché, come quella più in basso, si abbandonano per non più rialzarsi.
Notiamo tuttavia che anche quando piante o animali sono trattati come materiale poetico, essi non sono un espediente retorico o una metafora priva di vita. L’animo e le religioni del Giappone impongono sempre un profondo rispetto verso la natura, che non è mai considerata “altra” o subordinata all’uomo, ma piuttosto una totalità di cui il genere umano è parte.
3 Cultura di corte e cultura popolare
Tanto nella cultura di corte quanto in quella popolare, la natura era da un lato venerata, dall’altro lato temuta per le sue manifestazioni catastrofiche e anche per gli eventi di scala minore, che però potevano imprevedibilmente rovinare il raccolto e portare la fame nel territorio.
Prima nella cultura di corte, poi anche in quella popolare, la rappresentazione della natura nella forma di arte poetica, arte visiva e teatro fu utilizzata per portare un senso di armonia in un mondo disordinato e tumultuoso.
Nel periodo Nara la natura aveva già assunto la funzione di talismano, sia per allontanare le calamità (la morte, le pestilenze, le catastrofi), che per invocare la buona sorte (un raccolto abbondante, una vita lunga, la buona salute). Lo si vede nel Man’yoshū: gli elementi naturali riuscivano a rivestire il ruolo di intermediari fra uomini e divinità, queste ultime potendo essere benevole o avverse. Le rappresentazioni talismaniche non seguivano la successione delle stagioni, perché volevano costituire punti saldi, fissi, al di là delle costanti e imprevedibili trasformazioni del mondo.
Vediamo ora gli elementi talismanici che qui ci interessano maggiormente, perché erano frequentemente rappresentati nella pittura dei paraventi: erbe e fiori di primavera, pino, bambù, gru e fenice.
Fin dai tempi antichi, si riteneva che le foglie verdi e i fiori colorati che spuntano in primavera fossero portatori di una forza vitale. I canti che descrivevano i fiori che sbocciano e gli alberi che si rivestono di foglie erano un modo per lodare e attingere a questa forza vitale.
L’albero più importante e il più popolare fra i simboli talismanici è il pino. Esso da sempre era usato per il legname da costruzione e per le torce, ma era anche noto per la sua lunga vita e per il suo essere sempre verde; divenne quindi un albero sacro, associato con la longevità. Il pino è omofono del verbo matsu (aspettare) e nella poesia waka è associato all’emozione di attendere la persona amata:
“Se il fiore del pruno sboccia e appassisce, io sarò il pino che aspetta, e mi domando se il mio amato verrà o non verrà” (Man’yoshū, 10:1922)
Nei paraventi dipinti del periodo Heian il pino divenne un elemento indispensabile.
Un’altra importante pianta talismanica è il bambù, simbolo di lunga vita per i numerosi nodi del suo fusto.
In questo paravento, il bambù è rappresentato a distanza ravvicinata, in modo da mettere in evidenza i suoi nodi. La prospettiva insolita sembra metterci direttamente all’interno del boschetto.
Nei paraventi di uccelli e fiori dei dodici mesi, la gru è rappresentata nel Decimo mese, e funge allo stesso tempo da immagine talismanica e stagionale. Essa rappresenta longevità e saggezza.
La fenice, un uccello mitico, simboleggia la pace e il buon governo; la veste più esterna dell’imperatore era decorata con disegni di bambù, paulownia e fenice. Nel periodo Momoyama (1568-1615), i signori della guerra vollero la fenice dipinta sui paraventi, e questa pratica continuò fino al periodo Edo, quando perfino le coperte del letto erano decorate con la fenice per tener lontani gli spiriti maligni durante la notte.
Perciò, quando si guarda un dipinto, bisogna fare attenzione, perché ci sono due modi in cui le piante operano: uno indicando una particolare stagione, e quindi anche il sentimento che le è associato, per esempio la stagione dei crisantemi; ma può anche darsi che i vegetali indichino longevità e immortalità, così lo stemma imperiale del crisantemo non indica l’autunno, bensì la longevità.
La fenice, uccello mitico e magico, era un soggetto popolare nelle pitture di “Uccelli e fiori”, che nacquero nel XIV secolo e fiorirono nel periodo Edo. Questi dipinti furono una specialità delle scuole Kanō e Tosa, che erano sponsorizzate rispettivamente dal governo militare e dalla corte imperiale. Essi erano spesso donati in occasioni importanti a personaggi di alto rango, e avevano la funzione rituale di portare buona fortuna o di riconoscere l’autorità o il valore della persona cui erano dedicati.
Il valore stagionale e quello talismanico di fiori e piante erano spesso congiunti nella poesia e nelle arti tradizionali, come l’ikebana. Le composizioni rikka, per esempio, associavano tipicamente un sempreverde, che fungeva da centro principale e verticale (shin), con un fiore di stagione come ausiliare o estensione orizzontale.
Il Lascito segreto di Ikenobo Sen’ō (1542), il primo trattato sistematico sul rikka, fornisce una lista di piante che possono essere usate come shin per ognuno dei dodici mesi:
Primavera
Primo mese Pino, pruno
Secondo mese Salice, camelia
Terzo mese Pesco, iris (kakitsubata)
Estate
Quarto mese Deutzia
Quinto mese Peonia
Sesto mese Bambù, calamo aromatico, giglio, loto
Autunno
Settimo mese Campanula (kikyo), lychnis
Ottavo mese Cipresso Hinoki, Hinoki bianco
Nono mese Crisantemo, cresta di gallo
Inverno
Decimo mese Cornus cinese, nandina
Undicesimo mese Narciso, aster cinese
Dodicesimo mese Loquat (Eryobotria japonica, nespolo giapponese), pruno precoce.
Lo shin ha qui una funzione doppia: rappresentare la stagione o il mese e costituire il pilastro della struttura della composizione.
È possibile che anche le associazioni di vegetali prescritte dalla scuola di ikebana Ohara per la composizione dei paesaggi tradizionali tengano presente il valore simbolico di ogni pianta e fiore, oltre alla coerenza di stagione.
In effetti, nelle antiche radici religiose dell’ikebana possiamo trovare una chiave per comprendere il ruolo talismanico delle piante. Nel Buddismo, la sfera celeste è spesso descritta come un luogo pieno di fiori. L’interno dei templi buddisti era decorato con fiori per riprodurre nel nostro mondo la sfera celeste, e all’immagine di Budda si offrivano fiori, con incenso e candele – un gesto da cui può aver preso le mosse l’arte dell’ikebana. Ma ancor prima del Buddismo, in Giappone si credeva che le piante potessero incarnare o trasmettere il potere degli dei (kami), che si pensava abitassero nella natura.
Nei riti buddisti e nella devozione verso gli dei, le immagini della natura, specialmente dei fiori, erano certo un segno del carattere effimero del mondo, ma costituivano anche un mezzo per la manifestazione degli dei, che potevano tener lontane le malattie e la precarietà della vita.
La tradizione classica rappresentava elementi naturali partendo dagli oggetti estetici, mentre la cultura popolare prendeva spunto dagli elementi quotidiani (relativi all’agricoltura, alle prede di caccia o agli animali nocivi); queste due estetiche si fusero dal XVI secolo in poi: compaiono nelle descrizioni poetiche e nelle raffigurazioni pittoriche elementi della cultura popolare – ad esempio, uccelli campagnoli, come i passeri.
Questo paravento celebra il ricco raccolto autunnale. Il miglio maturo attrae molti uccellini – passeri, zigoli e cinciallegre –, cari alla cultura contadina. Vediamo anche uno steccato di bambù, una rete per catturare gli uccelli e i sonagli spaventapasseri che pendono da fili tesi, e richiamano la presenza di una fattoria. Accanto a loro, le erbe d’autunno, un motivo tradizionale della cultura “alta”, a testimoniare l’unione delle due estetiche, quella colta e quella popolare.
Infine, le stagioni erano molto importanti, anche perché a ciascuna era associato un punto cardinale, secondo il fūsui (cinese feng-shui), importato dalla Cina. Esso si basava sulla credenza che la terra contenesse forze vitali che dovevano essere salvaguardate per il benessere dei residenti. Le città erano progettate tenendo conto di questi criteri, e così anche ogni singola casa.
Il giardino basato sul fūsui con la primavera ad Est, l’estate a Sud, l’autunno ad Ovest e l’inverno a Nord divenne un ideale culturale, e si cercò di realizzare giardini in cui guardando nelle quattro direzioni si potessero vedere le quattro stagioni. Questo tempo utopico si trova in letteratura (ad es. nella Storia di Genji) e nella pittura di paraventi.
Ogni stagione è rappresentata attraverso un gruppo di fiori: ad es. l’estate, in basso al centro, da iris, giglio, garofano. I gruppi stagionali rispondono alla posizione tradizionale delle stagioni secondo il fūsui.
4 Il fluire del tempo e la magia che lo arresta
I mutamenti delle stagioni divennero una metafora per la transitorietà della vita e per i cambiamenti imprevedibili del mondo. Questa visione trovava un saldo appoggio nel convincimento buddista che tutte le cose sono impermanenti. Un esempio nella natura e nella stagione è rappresentato dai fiori di ciliegio, che perdono i petali appena sono fioriti.
Nijō Yoshimoto, un poeta classico, scriveva: “Quando pensi che sia ieri, oggi è passato, e quando pensi che sia primavera, è autunno. Quando pensi che i fiori siano sbocciati, le cose si cambiano nelle foglie colorate d’autunno.”
Sottrarsi al fluire del tempo è impossibile, certo; ma in qualche modo l’uomo ha bisogno almeno di rallentare la corsa dei giorni, e questo si può fare creando immagini che fissino alcuni momenti della vita; guardando quelle immagini, possiamo ritornare in quel tempo ogni volta che vogliamo.
In particolare, è ben vero che rappresentare tutte insieme le quattro stagioni ci ricorda il trascorrere di una fase nell’altra; ma questo avviene in modo singolare. Il ciclo, infatti, è un movimento rassicurante, perché la successione ritorna infallibilmente simile a se stessa, e quindi è almeno parzialmente prevedibile. Considerato nel suo insieme, è il tipo di movimento più stabile e fermo che ci sia.
È questo che mi ha affascinato nei paraventi dipinti delle quattro stagioni.
4.1 I paraventi dipinti
I paraventi, in giapponese byōbu, che qui ci interessano, hanno una lontana origine cinese (dinastia Han, 206 a.C. – 220 d. C.) e furono introdotti in Giappone nel tardo periodo Nara, attorno all’ottavo secolo. Byōbu significa letteralmente “muro per il vento”: il loro scopo originario era bloccare le correnti, abituali nelle case giapponesi a pianta libera, ma rappresentavano anche un modo agile e non rigido per dividere gli spazi. Nel successivo periodo Heian, il design dei paraventi evolvette da un semplice schermo a una sola anta fino a paraventi a due, sei o qualche volta otto ante. Erano pieghevoli e portatili, generalmente prodotti in coppia.
Su un semplice telaio a graticcio di legno di Cryptomeria, l’artigiano applicava sette diversi strati di carta incollata, ognuno dei quali era formato da molti fogli sovrapposti di carta a base di corteccia del gelso da carta (Broussonetia papyrifera). A strati alterni, i fogli erano incollati solo ai bordi, invece che sull’intera superficie, lasciando così tasche d’aria che aumentavano la resistenza e la durata del paravento. Lo strato più esterno su ambo i lati serviva da superficie da dipingere, ma generalmente per questa funzione ne veniva scelta una sola, contornata da un bordo di broccato. Tutt’attorno alla struttura c’era una sottile cornice di legno, laccata di rosso o di nero. Anticamente le ante erano collegate con cavi di pelle o di seta; a partire dal periodo Heian furono introdotte cerniere metalliche a forma di moneta, dette zenigata. Nel periodo Muromachi, le zenigata furono sostituite da fogli di carta ripiegata; i paraventi erano così più leggeri e più semplici da piegare; soprattutto, i confini tra i vari pannelli sparivano, permettendo la rappresentazione pittorica di scene ampie e continue.
Nei periodi Azuchi-Momoyama (1568-1603) e Edo (1603-1868), la popolarità dei paraventi dipinti continuò a crescere, e i signori feudali o nobili li mettevano in mostra nelle loro abitazioni come simboli di ricchezza e potere.
Due diversi stili caratterizzano i grandi dipinti dei castelli: uno stile a inchiostro, che rappresentava il modo di espressione più personale e più tradizionale; si sviluppò nel periodo Muromachi (1392-1568), sotto l’influenza dei modelli cinesi. Era usato principalmente nelle stanze private, dove i signori si riunivano per chiacchierare e bere il tè, e nei monasteri.
Tosatsu era allievo di Sesshū e conosceva i dipinti cinesi di uccelli e fiori del primo periodo Ming, in particolare i lavori di Lu Ji, che trattano il medesimo tema. Tosatsu dipinge sul primo paravento (di destra) una scena drammatica in cui un falco attacca in picchiata gli aironi terrorizzati, che fuggono verso il bambù e il loto. Un altro rapace, che serra una lepre fra gli artigli, osserva l’azione; le piante di fine inverno, primavera e inizio estate definiscono la stagione. Nel secondo paravento, mentre la natura va dall’estate all’autunno, la caccia degli uccelli da preda continua. Il tema dei dipinti è la potenza dei rapaci e Tosatsu, che era figlio di un samurai, sapeva bene che cosa significava in rapporto agli uomini.
La pittura a inchiostro cinese forniva anche la simbologia di alcune piante; ad esempio per i quattro vegetali, chiamati “i quattro gentiluomini”, che indicano le quattro stagioni, le quattro età dell’uomo e le quattro virtù del gentiluomo secondo i canoni dei letterati cinesi:
pruno carattere forte e paziente;
orchidea grazia e nobiltà d’animo;
crisantemo modestia e purezza;
bambù capacità del saggio di essere saldo ed energico, seppur flessibile – come il bambù,
che essendo cavo all’interno si piega ma non si spezza.
Ognuno di questi soggetti rappresenta anche una lezione di pittura a inchiostro: disegnare l’orchidea è il primo livello, l’esercizio sulla linea e sul libero movimento del braccio; solo dopo si può passare al bambù, per il quale sono necessari colpi brevi e vigorosi; la raffigurazione del pruno comporta una combinazione dei primi due tratti con l’aggiunta dell’esperienza di asciutto e bagnato; infine il quarto e ultimo gentiluomo, il crisantemo, serve ad imparare l’uso del chiaroscuro e per realizzarlo occorre saper disegnare i primi tre.
Assai diverso era lo stile di pittura con oro e colori, preferito per gli spazi pubblici, come le sale d’udienza. Si pensa che Kanō Eitoku sia stato il primo a usare uno sfondo con foglia d’oro in grandi dipinti (cfr. la figura seguente). Eitoku visse nel periodo Momoyama, fu il pittore più importante della sua generazione e l’iniziatore del nuovo stile dei castelli. La sua storia familiare e la sua ambizione lo portarono in contatto con tutti i grandi signori della guerra del suo tempo: Oda Nobunaga, per il quale Eitoku passò quattro anni a decorare con i suoi allievi le enormi sale d’udienza del castello Azuchi; Toyotomi Hideyoshi, per il quale lavorò nei castelli di Osaka, nel Juraku-dai e nel castello Fushimi; fu anche chiamato a dipingere nel palazzo imperiale. Era un lavoro gigantesco: ad esempio, nel 1588 il signore Hideyoshi aveva creato un percorso fra cento paraventi dipinti perché i suoi invitati arrivassero alla festa per ammirare i ciliegi fioriti (hanami). Tuttavia Eitoku viveva in un’epoca turbolenta, e la maggior parte dei suoi lavori seguì il destino dei proprietari: per esempio, con l’assassinio di Nobunaga il castello Azuchi fu bruciato fino alle fondamenta appena due anni dopo che Eitoku aveva terminato di dipingerlo.
4.2 Uccelli e fiori delle quattro stagioni: tre esempi
Questa categoria pittorica, di cui abbiamo visto anche sopra alcuni esempi, è un classico di tutto l’estremo Oriente; in particolare ho già fatto riferimento alla precisa tradizione codificata giapponese che assegna agli elementi naturali caratteristiche che devono essere lette in riferimento alla vita degli esseri umani. Gli uccelli intervengono così a dare movimento alle scene dipinte e ad arricchirle con la simbologia che è loro propria.
Lungo i dodici pannelli di questi due paraventi, una profusione di uccelli e fiori simbolici celebra il ciclo delle stagioni. Nel paravento di destra, alberi in fiore e fiori di primavera accompagnano una gru con i suoi piccoli, mentre più a sinistra un ceppo di gigli annuncia la transizione all’estate. I quattro pannelli centrali della coppia sono occupati da un gruppo di bambù, che si scorgono fra le nuvole. Nel paravento di sinistra, un ibisco bianco e rosa segna il passaggio dalla tarda estate all’autunno; il gran finale è costituito da un pino coperto di neve che stende i suoi rami incurvati attraverso il paravento e incornicia una coppia di gru adulte, che si guardano maestosamente. La pittura dettagliata e realistica degli elementi naturali in primo piano, tipica della scuola Kanō, è bilanciata con nuvole e altri elementi di sfondo più astratti, ed anche con ampi spazi vuoti.
Questa magnifica composizione celebra la longevità con il motivo augurale delle gru, parla di forza virile e imperturbabilità con il pino, ricorda il carattere effimero della bellezza e della vita con il ciliegio fiorito, e rappresenta via via i simboli delle altre piante, che un osservatore dell’epoca non faticava a leggere chiaramente.
Il fiume del tempo scorre dall’uno all’altro dei paraventi, ma anche non scorre, essendo solo dipinto; vale come memento, ma lo scenario in cui si colloca è talmente armonico, bello e splendente che il suo fluire non desta pensieri tristi.
La forma del ventaglio dansen incornicia le due immagini, che si aprono sulle stagioni come due finestre, due quadri nel dipinto. Lo scorrere del tempo pare interrotto, separato dal vuoto tra una stagione e l’altra. Lo sfondo astratto rende ancor più evidente l’aspetto simbolico delle scene. Questo paravento sembra dire: “Diamo uno sguardo all’autunno e all’inverno”.
Sul rovescio della seta è applicata la foglia d’oro, che dà al dipinto una leggera luminescenza e un senso di profondità. Sulla destra, le sette erbe dell’autunno, con i crisantemi e l’ibisco, rappresentano l’autunno nelle sue varie fasi; a sinistra, l’inverno è evocato dai narcisi, dalla camelia sasanqua e dal pruno, sempre con gli uccelli relativi alla stagione. Non ci è rimasto il paravento gemello di questo, che doveva rappresentare primavera ed estate.
La nebbia primaverile e la bruma autunnale scorrono fra le stagioni al posto del ruscello tradizionale. Un pruno fiorito, con un uguisu che vi si è posato, annuncia la primavera al di là di un alto steccato; la kerria, che rappresenta la stagione più avanzata, si protende verso l’estate, simboleggiata da iris, uccelli e fiori di palude. Nel secondo paravento, erbe autunnali e piante coperte di neve sono illuminate da una luna d’argento, che noi vediamo ormai brunita dal tempo.
Questo disegno semplice ed elegante riflette lo stile della scuola Rimpa, di cui Hōitsu era a capo a Edo (oggi Tokyo). Le sue composizioni aderiscono al modello di Kōrin sia nei colori che nell’audace scarsità di elementi. Vediamo bene sul tronco del pruno che anche Hōitsu utilizza la tecnica Rimpa del tarashikomi, (letteralmente far gocciolare). Essa consiste nel far stingere un secondo pigmento sul primo, ancora umido. In questo modo si creano fra i colori macchie e interazioni, in parte involontarie, che incrementano l’interesse visivo della superficie. Nella pittura Rimpa, è voluto il contrasto tra il disegno molto stilizzato e raffinato dei fiori e questa tecnica più rustica applicata ad altri elementi.
Vediamo che poco, pochissimo basta ormai a evocare il sentimento della stagione. Quello che importa nei dipinti, dopo centinaia di anni in cui i medesimi elementi sono riprodotti nella pittura, è l’emozione che l’artista riesce a ricreare in chi osserva. Qui, mi pare che ci sia un senso di solitudine e di distacco: non si vede – o forse, nella percezione soggettiva, non si sa – come ogni stagione trascorra nella successiva, perché tutto è velato dalla nebbia. Ogni fase può sembrare anche isolata dalle altre: invece di una sinfonia, una serie di note “staccate”. Una musica moderna.
5 Conclusioni
A tutto quello che si è detto fin qui, si potrebbe obbiettare che le stagioni sono importanti in tutte le culture del mondo. Tuttavia, quello che rende la cultura giapponese delle quattro stagioni davvero impressionante è la stagionalizzazione culturale, in particolare la suddivisione precisa degli elementi naturali in fasi e categorie stagionali con associazioni specifiche, ed il fatto che questa operi per più di un millennio.
I primi collegamenti poetici fra elementi naturali e culturali non sono stati del tutto sostituiti nel tempo, ma piuttosto in parte modificati e intessuti con elementi nuovi. Così, le credenze sui poteri talismanici di piante e animali, apparsi dapprima nei periodi antico e Nara, hanno continuato a coesistere con le rappresentazioni eleganti della natura, basate su colore, profumo e voce, della cultura aristocratica e di corte del periodo Heian. Queste, a loro volta, sono rimaste presenti nel periodo medievale, insieme con i paesaggi monocromatici di influenza cinese. Nel periodo Edo, la visione più antica è proseguita al fianco delle nuove prospettive sulla natura fornite dalla ricerca scientifica.
Ne risulta una trama complessa e fitta, tuttavia ben radicata nella cultura giapponese. I dettagli fanno parte di un vocabolario canonico, tanto che, ad esempio, i titoli dei paraventi dipinti sono generalmente attribuiti solo oggi, dai curatori museali: infatti, quando essi furono creati, non avevano bisogno di portare un nome: si guardavano e a prima vista si otteneva l’associazione emotiva che portavano con sé.
In questo lavoro non ho preso in considerazione molti altri aspetti interessati dalle associazioni stagionali: l’abbigliamento, le festività annuali, le relazioni interpersonali, la cerimonia del tè; non ho neppure seguito lo sviluppo del sistema di parole stagionali (kigo) dalla creazione nella poesia waka fino allo haiku moderno e non ho fatto alcun cenno ai rapporti sociali di cui questa visione della natura era espressione. Anche solo l’elenco delle implicazioni del sentimento giapponese per le stagioni mostra la centralità del ruolo che esso riveste nella cultura di quel Paese e la ricca, affascinante complessità di questo tema.
Bibliografia
Arte dell’Estremo Oriente, a cura di Gabriele Fahr-Becker, Könemann 2000.
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Lippit, Yukio: Ink Painting and the Rinpa Tradition, Conferenza al Metropolitan Museum, New York, 30/09/2012.
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Momoyama – Japanese Art in the Age of Grandeur, Catalogo della mostra tenutasi al Metropolitan Museum, New York, 1975.
Shirane, Haruo: Japan and the Culture of the Four Seasons – Nature, Literature and the Arts, Columbia University Press, New York 2012